
E’ ambientato a Gussago il racconto “Paisà, a via Forcella, una strada nella memoria”, scritto da Stefano Pazzaglia, titolare dell’Antica Trattoria Piè del Dos, uno dei tre racconti che giovedì 28 novembre 2013, presso la sala del parlamentino del Ministero dei Trasporti a Roma, verrà premiato dal certame letterario “Racconti on the Road”, un’iniziativa promossa dall’ANAS S.p.A., in collaborazione con la Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO (CNI) e la scuola di scrittura creativa “Le Officine del Racconto”.
Il certame è aperto a studenti e autori esordienti che vogliano proporre un loro racconto di massimo 15 cartelle sul tema del viaggio e sullo sfondo di una strada, intesa come luogo della fuga, dell’astrazione, della nascita o morte di amori, di conflitti con se stessi o con altri. Il regolamento e il bando sono all’interno, come pure i contatti con gli organizzatori. Il premio principale è la pubblicazione dei migliori racconti in un libro vero, come vera sarà la valutazione e vera sarà la competenza dei giurati. La Giuria del concorso “Racconti ON THE ROAD” è composta da autorevoli rappresentanti del mondo della cultura e delle istituzioni.
Ecco il racconto:
PAISA’
a via Forcella, una strada nella memoria.
Capitolo primo
La Balilla “musone” varcò il portone in legno della stazione di posta, con locanda, di Piedeldosso; era il millenovecentoquarantasei, autunno tardo ed il sole tramontava. Nella udì il crepitio generato dall’attrito degli pneumatici sul brecciolino del piazzale mentre, nella cucina , irrorava di burro le carni che rosolavano al calore della brace. Scostò la tenda, lavorata al tombolo, della porta a vetri e vide l’automobile compiere una lenta veronica arrestandosi dinanzi al portico del casale seicentesco. Il frontale antropomorfo della FIAT, con i fanali accesi poggiati sui grandi parafanghi, l’imponente calandra ed il paraurti cromato, sorrideva. Dalla parte posteriore destra uscì un giovane moro, di media statura con ciuffo impomatato e viso familiare, che solerte aprì la portiera anteriore da cui scese una bella ragazza castana. Nel frattempo il conducente, un distinto Signore in grisaglia, con movimenti lenti, posava piede sul suolo gussaghese. L’uomo, alto, robusto e leggermente stempiato si sistemò la camicia mentre osservava l’imponente glicine, ormai spoglio, che lo sovrastava, quindi si chinò all’interno della macchina uscendone con un soprabito sull’avambraccio sinistro ed il Borsalino in capo. La Signorina, aiutata dal giovane, indossò un cappotto sciancrato che ne sottolineava il portamento slanciato. Dopo un breve conciliabolo si diressero verso la porta d’ingresso con alla testa, a far da guida, il giovanotto.
-“Permesso?… signora sono Bruno”- disse entrando il giovane, con un’evidente accento toscano, alla donna che si era spostata dalla cucina alla sala attigua in cui dominava un vecchio bancone in rovere, con copertina in marmo di Botticino bulinato a far da appoggio, accompagnato da quattro tavoli di faggio con le sedie della stessa essenza e la seduta in raffia. Dietro alla mescita, sopra ad uno scaffale basso in legno foderato nella parte superiore con una tela cerata color mattone e coperto nelle sue vergogne da una tendina a piccoli quadri bianchi e rossi, stavano in bella mostra alcune bottiglie di grappe e liquori, di succo di tamarindo e menta, di Spuma bianca e nera ed il bottiglione da un litro e mezzo di vino rosso da calice. Sulla parete, leggermente inclinato in avanti, incombeva un grande specchio quadrato molato ai lati con la scritta Campari serigrafata al centro. Due appendiabiti in ferro battuto occupavano severi la parete di rimpetto. Un grande telefono nero, fissato al muro a lato del bancone e protetto da un piccolo paravento di tessuto damascato, attendeva chiamate.
La locandiera guardò perplessa il giovane che le sorrideva e d’improvviso il ricordo la raggiunse -“ Ah,si, Bruno… certo, parlavi alla Gefä della Monticella” – “ Eh si”- rispose il giovane -“ sono mesi che non ti vedo, frequenti ancora la Boni?”- “si, si certo, non son così bischero da farmela scappare!”- rispose ridendo -“ vedo che non hai perso la parlantina”- replicò Nella sorridendo agli ospiti. -“Guardi chi le ho portato, le presento il Maestro Roberto Rossellini… il regista cinematografico!”- disse con enfasi il giovanotto. Nella si sentì goffa, inadeguata, indossava un grembiule nel quale si strofinò le mani impacciata prima di porgere la destra -“ mi scusi stavo cucinando e non sono molto in ordine”- “ non si preoccupi Signora, è un piacere conoscerla, Bruno mi aveva parlato della sua bellezza ed al contrario del solito non esagerava” – rispose il regista accennando un baciamano.
Nella avvampò, non era adusa a tali galanterie. Era bella, di una bellezza discreta ed inoppugnabile. Nonostante avesse aperto la prima “anta” e la vita con lei non fosse stata clemente, manteneva un fascino raro: i dolci occhi glauchi, la carnagione chiara con l’adolescenziale tendenza al rossore ed i capelli biondi, mossi come un campo di grano in un giorno di vento.
-”Questa signora è un’attrice americana che ha lavorato nel mio ultimo film Paisà, si chiama Hariette… Hariette Medin” – “ Ciao ”- disse la giovane con un gran sorriso -“benvenuta signorina, ma… che sorpresa mi hai fatto Bruno… sono onorata, cosa posso fare per voi?”- “ stiamo andando a Milano e vorremmo pernottare, ha due camere, una per me ed una per Harriette?”- chiese Rossellini -“ certamente, devo solo verificare che le stanze siano in ordine, intanto vi preparo un caffè, accomodatevi pure, prego” – “ grazie gentilissima”- ringraziò il regista. Gli ospiti si sedettero ad un tavolo. Nella ritornò in cucina ed appoggio la cucuma del caffè, dopo averla caricata, sulla cucina a legna. Nell’attesa prese la leccarda ricolma di burro da sotto le lance dello spiedo, mise il contenuto in un piccolo pentolino con il beccuccio e cosparse le carni che cuocevano davanti al fuoco. Il caffè brontolava nella napoletana, era pronto, lo versò nelle tazzine e servì gli ospiti. -“Grazie, ma che profumo proviene da quella porta, cosa sta cucinando di buono” – “ lo spiedo Signor Rossellini, è un piatto tipico bresciano con uccellini e carni di maiale” – “ posso vedere?”- chiese il regista – “ Maestro intanto io scarico i bagagli dalla macchina”- disse Bruno. Roberto ed Harriette seguirono Nella in cucina dove girava lento lo spiedo. -“ Ci sono allodole e mumbulì”- disse la cuciniera -“ mombulì e cosa sono?” -“ mumbulì, sono fettine di coppa di maiale arrotolate con all’interno sale ed aromi… tra un pezzo di carne ed un uccellino metto una fettina di lardo ed una fogliolina di salvia”-. -“ What’s this?”- chiese la giovane americana indicando un volatile, infilzato nello schidione, a gambe all’aria -“ a bird”- rispose Roberto -“ it’s terrible”- disse la giovane con una smorfia di disgusto. Rossellini guardò incuriosito quello strano girarrosto e chiese delucidazioni sul suo funzionamento. Si trattava di una macchina leonardesca costruita seguendo un disegno contenuto nel Codice Atlantico, spiegò Nella. Il congegno sfruttava il principio della fisica per cui l’aria calda del fuoco, più leggera, salendo lungo la cappa del camino metteva in movimento una ventola fissata all’interno della canna fumaria, a circa tre metri dal focolare, che trasmetteva il moto ad un’asta, agganciata ad una boccola posta al centro dell’elica, alla cui estremità inferiore un pignone a lanterna ingranava una ruota dentata montata su un albero posto perpendicolarmente. Il movimento rotatorio veniva trasmesso, da una puleggia, al girarrosto. Roberto si chinò per cercare di vedere l’origine di quel ferro che scendeva dall’oscurità al centro della canna fumaria -“ Chi ha fatto quest’ingegnoso attrezzo,… un genio della meccanica?”- disse -“ Steno, il mio povero marito, trovò un libro che riproduceva i disegni di Leonardo e lo costruì”- rispose orgogliosa Nella. – “ geniale.. doveva essere un uomo in gamba suo marito”- esclamò il regista guardandola negl’occhi. Il rossore ricomparve sul suo viso ed abbassò lo sguardo -“ vado a sistemarvi i letti… torno subito”- disse con voce rotta la bella locandiera e veloce imboccò la scala che portava al piano superiore.
Quando ebbe finito di riassettare tornò da basso. I tre ospiti attendevano nel locale della mescita , -“ Signora, porto le valige nelle camere “ – disse Bruno -“ la prima a sinistra di fronte al bagno è della Signora Harriette , quella vicina è del Signor Rossellini”- spiegò Nella.” “ ti seguiamo anche noi , cosa dici Harriette?” – “ ok Roberto” -“ vi aspetto per cena, alle otto va bene?”- chiese la locandiera -“ benissimo, con permesso”- assentì il Maestro, ed i tre salirono alle stanze.
La porta della cucina che affacciava sul piccolo vano posto al fondo della scala ripropose il suo cigolio annunciando il ritorno del giovane -“ Nella, mi perdoni, non avrebbe una bici?…vado a dormire alla Monticella dalla mia fidanzata, il babbo Giuseppe mi concederà gentilmente di passare la notte in stalla con le vacche!” – “ ha,ha, pöer a te!, vai là in fondo c’è Steno, mio figlio, lo conosci, ti darà la bici… e salutami i Boni ”- disse la donna indicando il piccolo locale attrezzato per l’allevamento dei bachi da seta posto ad una trentina di passi dall’uscio della cucina, -“ grazie, certamente, ci vediamo domattina”- rispose il toscano uscendo.
Capitolo secondo
-“ Ciao”- disse Bruno a Steno che stava uscendo dallo sgabuzzolo degli attrezzi adiacente alla bigattiera,- “ ciao… cosa fai da queste parti?”- rispose sorpreso il ragazzo – “ Nella ti spiegherà, mi servirebbe una bici per andare alla Monticella dalla mia fidanzata… devo sbrigarmi perchè è già buio”-“ prendi quella nera che è vicino all’incudine in officina, ha i fanali”- spiegò Steno –“ grazie, ciao ci vediamo”-salutò il giovanotto, dirigendosi verso il laboratorio. Questo era il luogo in cui, da oltre cent’anni, ferravano i cavalli e da un paio di lustri Mario, zio di Steno, vi riparava attrezzi agricoli e qualche trattore. Un Landini era parcheggiato con il motore appeso, tramite grosse catene, ad un argano. Bruno vide nel buio il velocipede, lo inforcò e fu subito in strada.
Era una vecchia bicicletta da bersagliere con le gomme piene ed i freni a bacchetta, sotto la sella due robuste molle tentavano di addolcire i sobbalzi dovuti alle asperità del terreno. Imboccò la via per Ronco, si chinò in avanti e con non facile equilibrismo azionò la levetta che metteva a contatto la piccola dinamo con il copertone ed il fanale prese ad illuminare fioco ed irregolare la strada. La pedalata vigorosa era alimentata dalla voglia di rivedere la sua amata. Dai primi di Luglio non poteva respirare il profumo dolce della sua pelle allorquando si era fatto Firenze-Saiano e ritorno, passo della Futa compreso, in bici. Fu un’impresa epica, con le strade che a poco più di un anno dalla fine della guerra erano nastri sforacchiati e polverosi ed il suo mezzo non era come quello di Fausto Coppi. Eh l’amore!
Mentre pedalava i suoi pensieri tornarono agli ultimi mesi di guerra in cui il suo reparto di fanteria era di stanza a Rodengo e conobbe quella giovinetta poco più che ventenne. Erano stati mesi drammatici e dolci che suscitavano in lui sentimanti contrapposti. Lacerante era il ricordo di quella triste notte tra il 26 e 27 aprile dell’anno prima in cui le ss italiane di Thaler avevano assassinato quei giovani. Sentiva ancora le grida, le raffiche e le esplosioni di quella giornata e poi la paura, la paura di non poter continuare la sua vita con Cati. Nel “44 visse un terribile inverno istriano, nei dintorni di Pola, in cui rischiò di morire di freddo braccato dai Titini ,ma quella giornata passata tra Villa Fenaroli a Corneto e l’Abazia olivetana fu per lui l’episodio più drammatico di tutta la guerra. L’immagine dei corpi vilipesi di quei dieci uomini, ricomposti su miseri stramazzi , lo accompagnò per tutta la vita.
Abbandonò la starda in selciato del paese, fece d’un fiato la discesa sterrata che lambiva il cimitero gussaghese ed imboccò la via che collegava Ronco a Rodengo. Indossava un giaccone in panno pesante, a doppio petto, da marinaio, che lo riparava dall’aria gelida che si alzava dalla campagna. Oltrepassato il ponte sul Gandovere svoltò a sinistra dirigendosi verso l’Abazia e dopo poche pedalate superò il complesso monastico e la fila di gelsi che lo fiancheggiava. Le mani erano rattrappite dal gelo ma non sentiva dolore, dal suo sguardo traspariva una felicità ancestrale; aveva gli occhi di un segugio che corre nella maggese. Prese a destra infilandosi nuovamente nel contado in direzione del camposanto, adagiato silente nell’agro, di Rodengo; intravvedeva in lontananza i lumi dei “più” che rapidamente si avvicinavano come lucciole. La fila di cipressi alla sua destra lo salutarono, sull’attenti, come un plotone d’onore ed i coleotteri scomparvero alle sue spalle. Solo la flebile luce della piccola lampadina posta sul manubrio ed uno spicchio di luna illuminavano il nero pece della notte. Imboccò il tratturo che si immetteva sulla strada maestra che da Brescia portava verso Iseo, ancora poco ed era alla meta. Percorse il ponticello che attraversava la Liurna, il fosso che costeggiava la Provinciale, e le luci della Monticella si accesero silenziose. Ai suoi occhi appariva come un castello, tornato a casa in quel di Firenze andava raccontando che si era innamorato di una principessa che abitava un maniero. La posizione sopraelevata rispetto al piano campagna, l’imponente facciata con le due torri merlate ed il viale d’ingresso costeggiato da muri in pietra, che pareva un ponte levatoio, davano quell’aspetto al grande cascinale dei fratelli Novali. All’interno oltre alla cereria dei proprietari e le loro dimore, erano alloggiate alcune famiglie di mezzadri: I Bonetti, i Pelucchi ed i Boni.
Il campanile della parrocchiale di Saiano annunciava le sette della sera, oltrepassò il portone d’ingresso e dall’ombra una sagoma imponente si avvicinò e mormorò minacciosa -“ chi set ?“-. Riconobbe quella figura da corrazziere che lo sovrastava di una spanna -“ Piero… sono Bruno sto andando a casa dei Boni”- il giovane Bonetti lo riconobbe -“ ah…ciao toscano come stai?”-“ si vive dai.. e voi a casa tutto bene?” rispose l’ospite – “ si grazie, ci vediamo ciao… sö de fresä go de na da la murusä… speröm de fa bel!” – “Eh… te lo auguro, ciao Piero” lo salutò mentre il giovane s’allontanava.
Nella cucina, dominata dal grande camino, i Boni erano riuniti per la cena attorno al tavolo rettangolare posto al centro della stanza: Giuseppe capotavola, le sue cinque figliole e l’unico figlio maschio equamente distribuiti a sinistra ed a destra del desco e di fronte al capofamiglia la sua seconda moglie, Angela. La radio a valvole nella sua veste di radica con i pomoli del volume e della sintonia in simil-avorio, vanto della famiglia e posta in bell’evidenza su un mobiletto fatto all’uopo, raccontava gracidando il Mondo; il paiolo della polenta bofonchiante, sospeso sui ceppi arrossati, la cucina a legna con le quattro aperture smaltate di bianco e la canna fumaria zincata, osservavano la scena domestica. I ragazzi si dividevano in longilinei e brevilinei. Angela, Anna e Genovieffa Caterina detta Gefä o Cati appartenevano ai primi, Francesca detta Cecä, Albina ed Andrea ai secondi. I lunghi, avevano ereditato i geni della madre, Maria, che era mancata circa quindici anni prima, gli altri quelli del padre. Curiosamente si disponevano al tavolo secondo questa caratteristica fisica, quasi a fronteggiarsi, con il padre a far da moderatore. -“Vò, bubà, ghe dif semper risù a l’Andrea perché lè’n masch”- brontolò Anna -“ tas e mangiä, can de l’ostiä!”- rispose il patriarca.
Bruno non s’era annunciato e quindi nessuno sapeva del suo arrivo. Appoggiò al muro la bicicletta e bussò alla porta della cucina, -“ chi l’è po a che l’ura che?”- disse alzandosi Giuseppe –“ sono Bruno”- rispose una voce da fuori; Cati s’alzò in piedi come eiettata dalla sedia e fu in un istante dinanzi alla porta. Si ricompose, il padre la guardò severo, una rapida occhiata alle vesti, quindi ruotò il chiavistello ed aprì l’ingresso. I due ragazzi si abbracciarono e si diedero un bacio casto. Il giovane entrò e salutò tutta la famiglia dando ovvia precedenza al padre -“ siediti… avrai fame, accomodati “- disse Giuseppe abbbandonando il dialetto a favore della lingua manzoniana più comprensibile al giovanotto. Bruno si sedette a fianco del capofamiglia. Questi aveva preso in simpatia quel giovane che a primo acchito gli parve un po’ troppo ciarliero. A lui, vecchio socialista, quel giovane un po’ comunista che amava con sincerità la sua prediletta, così diverso dai ragazzi delle sue campagne, piaceva. Festeggiarono con parecchi calici di vino la vittoria della Repubblica nel referendum del 2 Giugno e così il loro rapporto si consolidò.-“Da dove arrivi Bruno, non sarai venuto ancora da Firenze in bici?”- gli chiese ridendo Giuseppe con il suo greve accento, il giovanotto fece un sorriso furbo e con occhi vispi scrutò lo sguardo curioso di tutti i presenti -“ eh… sapeste con chi son venuto…”-, tutti pendevano dalle sue labbra,- “con chi?”- chiese Anna, il giovane fece un sorrisetto di sguincio per riempire la pausa teatrale e con orgoglio disse –“….sono arrivato alle cinque alla posta di Piedeldosso, dalla Nella, con Roberto Rossellini!”- “ chi?”- replicò Giuseppe –“ Rossellini quello di Roma città aperta!”- esclamò Cati – “proprio lui”- annuì compiaciuto Bruno. Una serie di domande investì il giovanotto, a cui la favella non mancava, che nell’ora successiva tenne tutti avvinti con il suo racconto; parlò della sua esperienza d’attore nel film Paisà, del maestro Rossellini e di Harriette.
– “ Ades però nom a dormer….dumà gom de lià sö prest… Bruno tu dormi con Adrea”- disse perentorio Giuseppe. -“Porca miseria preferivo in stalla”- pensò l’ospite, non perché avesse antipatia per l’erede maschio di casa, anzi, ma per un problemino di quest’ultimo: russava che sembrava un’idrovara all’asciutto. -“ Gefä saludel e dopo vè a dormer”- sentenziò il padre – “ bubä, el sif che ma pias mia Gefä… ciamim Cati!”- disse stizzita la giovane –“ se va bè… buonanotte”. Appena tutti uscirono dalla cucina le labbra di Bruno si appiccicarono a quelle della ragazza come ciuicì höl véh .
-“Domani mattina andiamo a Gussago che ti presento al maestro Rossellini ed a Harriette”- disse entusiasta Bruno alla sua dolce franciacortina –“ ma questa Harriette… ne parli un po’ troppo!” – replicò la fanciulla irritata –“ ma dai sciocchina.. è americana, è un’attrice io sono solo un povero grullo…”- si schernì il giovane. -“Gefä vè a dormer”- ordinò con voce austera Giuseppe Boni dal piano superiore. Cati uscì velocemente ed imboccò la scala in legno posta sotto il porticato, a fianco dell’ingresso della cucina, che portava alle camere. Bruno aprì di contraggenio la piccola porta che immetteva nella camera di Andrea, un piccolo vano ricavato con una parete in legno tra la cucina e la stalla, e si coricò – “ Buonanotte Andrea”-“ buonanotte Bruno”-.
Capitolo terzo
L’osteria di Piedeldosso era frequentata da avventori talvolta poco urbani, Gentile teneva testa a tutti con piglio deciso, quasi maschile; da dietro il bancone dominava anche gli spiriti più accesi. Fin da ragazzina aiutava Nella con passione e tra loro c’era un rapporto fraterno. Non esisteva viandante che transitando dalla Forcella in direzione Valle Trompia o viceversa non si fermasse in quel luogo anche solo per un calice di vino. Oltre alla cordialità ed all’avvenenza della locandiera, erano famosi i piatti di salumi, il Bertagnì ed il baccalà in umido con la polenta ma sopra ogni cosa lo spiedo, anzi gli spiedi. Nella proponeva le sue preparazioni in relazione alla stagionalità venatoria: nel primo autunno erano spiedi con uccellini a becco fine che essendo di più rapida cottura accompagnava con degli involtini di arista di maiale, poi con l’arrivo delle allodole, in piena stagione delle foglie morte, abbinava la coppa e le costine sempre di suino, quindi, al passo dei tordi, aggiungeva qualche presa di pollo come d’uso nella vicina valle armiera di cui era originaria.
L’uomo di casa era Steno il figlio di Nella, nato nel “27”, l’ultimo giorno dell’anno, pochi mesi dopo la morte del padre e ne portava il nome. Aveva ereditato tutto dal genitore ad eccezione degli splendidi occhi, evidente dono materno, incastonati in un viso etrusco. Dava una mano nella locanda e curava un piccolo allevamento di bachi da seta come gli aveva insegnato il nonno paterno. Nella aveva il suo bel da fare a tener lontane le ragazzine del paese ed a controllare il carattere fumantino del giovane. Qualche mese prima un carrettiere alticcio aveva osato importunarla e se ne era andato malconcio. L’uomo, da allora, quando passava per Via Forcella incitava la sua vecchia cavalla ad allungare il passo.
La sveglia posta sulla madia ticchettava le otto della sera. Nella sala da pranzo, a volto, erano apparecchiati un tavolo rettangolare con dieci coperti e nell’angolo più appartato uno circolare per due ospiti. Il servizio di piatti in ceramica decorato in oro zecchino e le tovaglie in fiandra bordate con un fine chiacchierino erano riservati alle grandi occasioni, e quella sera era tale.
-“ Gentile, per favore, avvisa i signori nelle camere che la cena è pronta”- disse Nella, e la solerte cameriera salì al piano superiore ritornando qualche istante dopo con al seguito i due ospiti -“i signori stavano scendendo”- disse la ragazza. Roberto ed Harriette si affacciarono alla porta della sala da pranzo posta a sinistra del fondoscala. Il regista aveva le mani in tasca, al suo fianco la giovane attrice -“vi faccio accomodare a quel tavolo, prego”- disse la locandiera indicando quello rotondo. L’attenzione del maestro fu attirata dalla decorazione che correva lungo le pareti, si avvicinò ed osservò con attenzione il disegno. “ Signora Nella di che epoca è questo affresco ? “-“non saprei, Signor Rossellini”- rispose -“ mi chiami Roberto, la prego… è fatto con una tecnica antica, molto usata nel Rinascimento, lo spolvero”. Nella si accostò al cineasta che proseguì -” vede questi puntini che definiscono il disegno, ne sono la dimostrazione” – La donna si avvicinò e notò che il contorno del dipinto era punteggiato, non l’aveva mai osservato in tanti anni -”disegnavano prima su un cartone preparatorio la scena o la decorazione poi con un grosso ago punteggiavano il contorno e quindi lo appoggiavano sul muro da dipingere e con un sacchettino di tela pieno di grafite tamponavano le parti perforate lasciando la traccia del disegno sulla parete, e poi affrescavano…. il casale è seicentesco e la decorazione sarà coeva”- sentenziò il maestro sedendosi al tavolo.
-”Cosa ci dà di buono, lo spiedo immagino?”- “ certamente ma prima ci vuole la minestrina sporca per preparare lo stomaco, usiamo così da queste parti”- rispose la donna -“ ah, mi raccomando, per Harriette niente uccelli”- disse Roberto mentre la locandiera tornava in cucina. Dopo pochi minuti Nella tornò al cospetto dei due ospiti –“ c’è una telefonata per lei, è il Sig. Fellini”- disse al regista -“ ah, Federico…che vorrà?”- esclamò alzandosi. Il locale di Piedeldosso era posto telefonico pubblico e la locandiera guidò l’ospite al grande telefono nero vicino al bancone. Il maestro impugnò la cornetta in bachelite poggiata sulla piccola mensola, prese a paralre e dopo poco riattaccò. -“ Era un mio collaboratore, Federico Fellini, mi ha dato una mano nella sceneggiatura del film…è in gamba farà strada…mi aspetta a Milano domani nel pomeriggio”- spiegò Rossellini a Nella mentre ritornava al tavolo.
Nel frattempo la piccola sala si era riempita di avventori e l’allegro vocio era premessa di robusti appetiti. Gentile sgambettava tra i tavoli, pose una brocca di vino rosso sul tavolo degli ospiti illustri non prima di averne versato un bicchiere a testa -” è il vino delle nostre colline”- disse in modo spiccio la cameriera -“aspro e sincero”- pensò il cineasta sorseggiandolo. Dopo poco la giovane ricomparve con in mano la zuppiera, la depose sul tavolo di Roberto ed Harriette e con movimenti decisi dispensò la minestra. Quando l’aiutante ebbe sbarazzato le fondine del consumè ricomparve in sala Nella con la “Basiola” dello spiedo, al suo fianco Steno portava il tagliere della polenta -“ questo è mio figlio”- disse mentre serviva le carni ai due ospiti – “ buonasera signori “- disse il ragazzo posando il tagliere fumante sul tavolo “ Ciao come ti chiami?” chiese Roberto -“Steno” -“Steno… che bel ragazzo, Nella ha preso da lei?” – “molto anche da suo padre”- rispose fiera. “ Deliziosa la sua minestra, dopo, quando ha tempo, si siede con noi e mi svela la ricetta”-“ non voglio disturbarvi..”- “ la prego non disturba ne sarei onorato”-” come desidera”- rispose la donna.
La sveglia ticchettava le undici della sera, nel locale erano restati solo i due noti avventori e Nella tornò da loro -“ E’ stato tutto di gradimento?” – “ certamente Signora, lei è una cuoca eccellente.. però mi deve svelare il segreto di quella meravigliosa zuppa… si accomodi con noi” disse Roberto mentre si alzava per prendere una sedia dal vicino tavolo. La locandiera si sedette e raccontò i suoi segreti coquinari -“ vede non c’è nulla di particolare… faccio un soffritto di cipolla sedano e carote poi metto della polpa di pollo tagliata fine e successivamente i fegatini ed i cuori di pollo, sempre tritati, sfumo con un goccio di vino bianco e li lascio cuocere per un’oretta quindi aggiungo del brodo di carne… manzo e gallina, alla fine un pugno di riso che ho precedentemente lessato”- “ il risultato è ottimo, anche lo spiedo è eccezionale.. complimenti raramente ho mangiato così bene”- replicò Rossellini. -“ Roberto I’m tired, I go to bed,”- disse Harriette- “ goodnight baby”- rispose Roberto – “ buonanotte signorina”- disse Nella. L’attrice imboccò la scala per il piano superiore, Nella e Roberto ripresero a conversare.- “ Ho visto Roma città aperta mi è piaciuto molto, che brava la Magnani e poi anche quel prete.. come si chiama l’attore?” – “ Aldo Fabrizi”- rispose il regista “ che bravo.. ho pianto”- disse commossa la donna – “fra pochi giorni esce Paisà vada a vederlo, racconta l’avanzata alleata in sei episodi, in quello fiorentino compare anche Bruno, ho usato molti attori non professionisti”- “Ah! c’è anche Bruno… sicuramente lo vedrò”- rispose la donna entusiasta. Nella si sentiva a suo agio, amava il cinematografo e poter conversare con il Grande Rossellini era un sogno. Scoprirono di essere coetanei e la cosa li rese ancor più complici.
La sveglia ticchettava la mezzanotte.
Si alzarono: “buonanotte Nella e grazie”- “buonanotte Roberto”-.
Capitolo quarto
Bruno e Cati arrivarono in bicicletta poco prima delle nove del mattino , lui alla guida e lei seduta di traverso sulla canna, appoggiarono nella rastrelliera il mezzo ed entrarono nell’osteria dall’ingresso posto sulla Via per la Forcella. Sul bancone della mescita campeggiava una splendida torta di rose con i suoi dolci boccioli. Al tintinnio del piccolo campanello che accompagnava l’apertura dell’uscio Nella si affacciò dalla porta della cucina -“ Bruno, Gefä… che belä scietä te set deentadä”- “ grazie Nella, come stet?”- disse la ragazza – “ bene… sintet zö”- rispose la locandiera. -“ Il maestro Rossellini è ancora in camera?”- chiese Bruno -“ Si sono alzati e tra poco scendono”- rispose la signora.
-“ Buongiorno “- disse Roberto nell’aprire la porta che dal porticato immetteva nel locale. Bruno, che era di spalle, s’alzò di scatto sorpreso -” Buongiorno Maestro, buongiorno Harriette”- “ buongiorno, vi preparo la colazione”- disse Nella dirigendosi in cucina“-.-“ Questa è Cati… questi sono i Signori Roberto Rossellini e Harriette Medin”- disse il giovane – “ molto lieta signori”- esordì timidamente la ragazza -“ Ah piacere! Bruno ci ha parlato di lei per tutto il viaggio da Firenze a qui… complimenti Bruno che bella figliola!”- esclamò il maestro. Il toscano gongolava.
I quattro sedettero ad un tavolo. Poco dopo tornò Nella con le tazze del caffè ed il tegame del latte caldo -”ho preparato la torta di rose la gradite?”- disse la locandiera -“certamente sarà squisita”- rispose Roberto.
Nella si unì a loro per la colazione.
-“ Dobbiamo andare devo essere a Milano nel pomeriggio”- disse il Maestro.
Si salutarono con affetto, per tutti fu un incontro indimenticabile. La Balilla “musone” di Roberto Rossellini ed Harriette Medin riprese la strada verso Milano e Nella il lavoro alla locanda di Piedeldosso.
Bruno e Cati percorsero assieme la seconda metà del novecento, fino a quel giorno di Giugno del primo anno del nuovo millennio in cui lui decise che il secolo neonato non gli garbava e se ne andò .
Nota
In questo racconto si intrecciano realtà ed immaginazione, personaggi esistiti e di fantasia, storie realmente accadute ed altre immaginate. Il novecento è lo sfondo in cui si muovono i personaggi e la locanda di Piedeldosso il punto di intersezione di questi brevi segmenti di vite. Si tratta quindi di opera d’immaginazione ed ogni riferimento a persone esistite od esistenti è del tutto casuale.