Andrea Carasi: “La pallavolo mi ha portato in Finlandia”

Andrea Carasi

A 33 anni, Andrea Carasi ha già vissuto una carriera che sembra un romanzo. Cresciuto a Gussago, con i primi passi da assistente in Serie C, si è ritrovato nel giro di pochi anni a sedere in panchine internazionali, ad allenare in Francia e poi in Finlandia, a Kuusamo, dove oggi è alla guida di una delle squadre femminili più forti del Paese ed è stato assistente nazionale nel 2023, partecipando agli Europei. La sua è la storia di un giovane allenatore di volley femminile che ha trasformato occasioni fortuite in un percorso solido. Una parabola costruita tra occasioni colte al volo, sacrifici e un pizzico di destino: perfino un tatuaggio con un simbolo regionale finlandese, mostrato per caso in Champions League, ha contribuito a scrivere il suo percorso.

Come è arrivato in Finlandia?
Un insieme di casualità. Lavoravo a Gussago in Serie C come assistente allenatore, poi sono stato chiamato al Millenium in A1 come terzo allenatore, diventando poi secondo. Quando la squadra è retrocessa in A2 avrei voluto restare al fianco del coach Beltrami, ma con il club non abbiamo trovato l’accordo giusto. Ho iniziato a scrivere su LinkedIn ad allenatori italiani che lavorano all’estero, in particolare a quelli che lavoravano in Francia perché parlo la lingua, e il primo a rispondermi è stato François Salvagni, bolognese che allenava appunto in Francia. Mi ha invitato per due settimane a Mulhouse: lì il secondo allenatore per motivi personali non poteva essere sempre presente in palestra, così ho avuto modo di lavorare davvero. A fine stagione mi hanno offerto un contratto e ho guidato come vice allenatore la squadra in A2. Mulhouse è uno dei club più forti al mondo, con cui ho giocato anche la Champions League. In quella occasione, durante una partita di Champions in Finlandia, le telecamere mi hanno inquadrato: io ho un tatuaggio sul braccio con un simbolo regionale finlandese, che non sapevo fosse tale. Mi ha notato il presidente di una squadra locale e da lì è nato il contatto.

Che percorso ha seguito da quel momento?
Ho iniziato con una squadra di medio livello in Serie A finlandese, firmando un contratto biennale. Dopo un anno con buoni risultati e la chiamata in Nazionale, però, il budget del club non era sufficiente per poter fare bene e sono rientrato in Francia. Poi sono ritornato in Finlandia, dove l’anno scorso abbiamo conquistato il bronzo nazionale. Le buone prestazioni contro la squadra più forte del Paese mi hanno portato a ricevere un’offerta da loro, che ho prontamente accettato.

È stato complesso?
Sì, soprattutto dover cambiare tutta la mia vita ogni anno e spostarla di 3000 chilometri. È una cosa un po’ strana all’inizio, quando hai davvero l’opportunità di andartene, ma col senno di poi dico che tenderò a stare all’estero il più possibile. La differenza più grande con l’Italia è che qui sono davvero un professionista: ho busta paga, contributi, assicurazione, tutto ciò che serve per vivere del mio lavoro. In Italia, nella pallavolo, non è così: puoi guadagnare, certo vivere di quello, ma non hai tutele. Nei prossimi 5 anni dovrebbero sistemare la situazione, ma per ora non funziona. La parola professionismo in tanti paesi è vera, in Italia no.

C’è qualcosa che le manca del nostro Paese?
Solo la velocità nelle cose quotidiane. In Italia ordini un caffè e lo hai in un minuto, qui è tutto molto più lento. Ma se mi chiede se posso farne a meno, le dico sì. Qui lavorare a tempo pieno, in un lavoro comune, significa 36 ore, non 40. La qualità della vita è nettamente migliore.

Quali sono i punti di forza della Finlandia?
Il sistema è meritocratico: ti lasciano tempo e fiducia per sviluppare un progetto, senza pressioni continue e ti valutano solo alla fine. La vita sociale è diversa: poco Internet, molta vita reale. Fa freddo, quindi ogni casa ha la sauna: qui incontrarsi significa fare la sauna insieme, è come per noi il caffè. Le giornate sono scandite da orari diversi: pranzo alle 10.30, cena alle 17, alle 22 tutti dormono.

È stato difficile adattarsi?
Non al sistema, ma alla luce. Al circolo polare il sole tramonta tardissimo in estate e in inverno quasi non lo vedi: un crepuscolo perenne. Le finestre sono enormi perché si cerca sempre più luce possibile. È un’esperienza che non si può spiegare se non la si vive. Poi ci sono le bellezze naturali: l’aurora boreale, le renne libere in città, i laghi ghiacciati che diventano strade per auto e autobus. Perfino piste per sciatori di fondo che vanno al lavoro.

La sua famiglia come vive la distanza?
In stagione non avrei tempo nemmeno in Italia, quindi cambia poco. Dopo cinque anni all’estero le amicizie a Brescia si sono allentate. Con la famiglia ci vediamo quando torno o vengono loro a trovarmi, e intanto scoprono posti nuovi. Nel nostro ambiente i legami sono diffusi: un amico in Brasile, uno in Florida, uno in Portogallo. Ci si ritrova in giro per il mondo, soprattutto nelle nazionali.

Qual è stata la difficoltà più grande?
La lingua e la cultura. Il finlandese è quasi impossibile, dopo tre anni capisco tante parole ma non riesco ancora a formulare frasi complete. La distanza fisica è enorme: anche con persone che conosci bene resti a due metri. Il contatto fisico è raro. Non è freddezza, è normalità. Però c’è un rispetto impressionante: ho dimenticato il computer in un bar, me lo hanno restituito il giorno dopo. Ho trovato una collana d’oro su un treno, il capotreno mi ha detto di lasciarla lì perché il proprietario sarebbe tornato a cercarla: otto ore dopo era ancora lì. Qui non esistono antifurti né inferriate. Le auto in inverno restano accese in parcheggio con le chiavi dentro, altrimenti di esaurirebbe la batteria per il freddo e nessuno le ruba. È una società basata sull’onestà.

In definitiva, cosa le ha insegnato questa esperienza?
Che la vita può essere diversa. La Finlandia ha scelto di non aprirsi alle multinazionali e di puntare sull’equilibrio interno. Qui la disoccupazione non esiste, il lavoro si trova, e lo scopo del Paese non è fare soldi sui cittadini ma garantire benessere. Io vivo meno freneticamente, in un sistema che funziona. E se anche a volte mi manca un caffè veloce, credo di aver guadagnato molto di più: tempo, fiducia, rispetto e la mia professione.
Giada Corna

Fonte: Bresciaoggi

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