Alla Galleria Civica di Desenzano il ricordo-omaggio dell’artista di Gussago a quindici anni dalla scomparsa. Per lui la due ruote ha sempre qualcosa di festosa necessità, non dà il senso della fatica, ma qualche volta della solitudine.
Un ricordo-omaggio alla figura e all’arte di Eugenio Levi si tiene, fino al 28 aprile, nella Galleria Civica di Desenzano del Garda; la scelta dei curatori (la mostra è stata presentata da Carla Boroni, che lo ha seguito nelle ultime rassegne, poco prima della morte, una quindicina di anni fa) si è accentrata su un tema specifico, quello della bicicletta.
La bicicletta non è solo una «cosa»; è un mezzo per gli uomini, di lavoro, di divertimento, di sport. E per chi, come Eugenio, è cresciuto negli anni del secondo dopoguerra (era nato nel 1937: aveva 8 anni quando arriva finalmente la pace), la bicicletta era tutto, un mezzo per recarsi al lavoro e un mezzo per andare a trovare gli amici; le colline della nostra provincia (Levi viveva a Gussago) erano piene di Coppi e Bartali locali; anche la tradizione espressiva, attraverso Giuseppe Zigaina, aveva innalzato la bicicletta a soggetto simbolico, con la bicicletta intravista nella notte buia (c’era il coprifuoco e si viaggiava senza luci), con i suoi parafanghi bianchi, che rendono le ruote del pittore friulano una sorta di duplice falce.
Per Levi la bicicletta ha sempre un che di festosa necessità; non dà il senso della fatica; forse, in quelle file di biciclette allineate e tuttavia ben disposte nei luoghi di lavoro (non c’erano parcheggi, ma rastrelliere dove le biciclette si infilavano o si appendevano), emerge a volte un senso di solitudine; l’individuo era se stesso nel piccolo mondo della sua bicicletta: in un articolo di quasi mezzo secolo fa, Elvira Cassa Salvi ha parlato di «ermetico, autentico, claustrale silenzio».
La mostra, a fianco di alcune grandi opere, imperniate sulla bicicletta, raccoglie un’invidiabile carrellata di piccole biciclette, tracciate, provate e riprovate, realizzate in ogni frammento di carta che passava tra le mani del pittore, uno stesso disegno con mille, piccole varianti, attraverso cui l’artista viene sempre più impadronendosi della sua «cosa»; appoggiata, bella dritta, come in posa fotografica (o come in una pubblicità involontaria, che non apparteneva all’ordine mentale del pittore), piegata nella ruota davanti per fare aderire il manubrio al supporto (di solito un muro), la bicicletta balza agli occhi del visitatore come una bella ragazza in posa per un concorso di bellezza. Ed è davvero bella, anche con i suoi colori arrugginiti, la sua forma funzionale, che rinvia idealmente alla «Legnano», che aveva, come simbolo, Alberto da Giussano, con il suo spadone levato, e all’altra bicicletta, la «Bianchi», a ripetere la rivalità sportiva in rivalità commerciale. Forse anche per questo, dalle mie parti, si diceva che un uomo era vecchio quando non aveva più la forza di alzare la gamba per montare in sella.
Levi, attraverso la bicicletta ha parlato di noi, delle nostre fatiche, ma anche dei momenti più festosi, della bellezza di una forma meccanica, che equivale a tutt’altra bellezza naturale; e lo ha fatto, con quel segno incisivo, così tipico della cultura realista del dopoguerra italiano, senza alcuna retorica, con il senso umano delle cose, che proprio perché ci appartengono e sono parte di noi non scivolano mai nella retorica e nell’ideologia: Levi ha cantato un’epoca attraverso un mezzo popolare, anche quando la retorica dei tempi portava in campo l’automobile, altro e più ambito mezzo che avrebbe allontanato l’altra dalle strade. E il segno, spesso greve, di tanto realismo troppo narrativo, diviene attraverso la bicicletta di Levi ad un tempo spigoloso o solenne, inquieto e apprensivo ma anche sereno, un po’ come siamo noi.
Il mezzo diviene una metafora della vita e assomma fatica e speranze, sudore e felicità; con una sottile ironia, sempre presente, sotterranea e sensibile, come spesso compare nel mondo popolare autentico; nella pittura di Levi, l’immagine, ogni immagine, ha sempre una molteplicità di significati che aprono alle memoria e all’emozione.
Mauro Corradini
Fonte: Bresciaoggi