Il sogno si avvia ai primi cinque anni di età. «Esaltanti e faticosissimi: da un lato il tempo è volato, dall’altro mi pare sia passata una vita» dice Alberto Gipponi. Il suo Dina, nel cuore di Gussago, ha appena riaperto e per i fedeli — tantissimi, tra gli appassionati della zona e i gourmet che vengono anche da lontano — è una bellissima notizia. Perché in un ambiente originale, una casa in stile retrò-chic dove si viene accolti al buio da un’opera d’arte al neon (‘until then if not before’: fino allora se non prima), si gode di un’esperienza sorprendente. Due percorsi degustazione: Dina 1721 con i classici e il nuovo, eccellente Impasta. Mille idee, tecnica, estetica e gusto. Vini e non solo all’altezza. Si sta meglio del periodo iniziale: è una stella Michelin piena, sempre a nostro avviso. Partiamo da qui.
Gipponi, ci pensa o non ci pensa a questa benedetta stella che molti addetti ai lavori e tanti suoi fan considerano doverosa?
«Possiamo discuterne tutto il giorno, ma la Guida Michelin segue la sua strada e ha ragione, visto l’impatto che ha sul fatturato di un locale e la carriera di un cuoco. Non è che non ci penso ma per me ora è più importante il miglioramento di Dina: tra qualche anno, voglio un luogo performante, sempre al top».
L’aspetto che è cambiato di più rispetto al 2017?
«Gioco sul mio soprannome ‘Don Gippo’: ho chiuso l’oratorio e capito che nella ristorazione non c’è tempo per educare. Ma è rimasto l’altro elemento fondante: lo spirito da cooperativa, che però deve funzionare. Ora cerco di costruire la squadra di Dina con persone che sposino un progetto e non lamentino un senso di insoddisfazione, la linea deve essere quella della serenità. Non a caso, ho aperto Delia — la gastronomia con cucina, a Brescia — facendo socio il mio braccio destro Alessandro Lollo. La progettualità condivisa è l’elemento che oggi mi dà maggiore orgoglio».
L’errore che non farebbe più?
«Cucinerei come adesso: meno estremo nel gusto. Ma a quel tempo pensavo a cosa piacesse a me, non al cliente. Ho ragionato tanto, ispirandomi a una frase di un gesuita e pedagogo cileno, Alberto Hurtado: ‘Per insegnare basta sapere, per educare è necessario essere, ma chi sei lo determinano le persone’. Ora cerco di capire cosa vogliono le persone e di farle felici, nelle mie possibilità».
In febbraio, ha passato un mese in cucina nel Tre Stelle del grandissimo cuoco Georges Blanc. Coraggioso per un cuoco già affermato.
«Mi sono occupato delle carni e delle salse: volevo misurarmi con qualcosa che non conoscevo e sono uscito consapevole di esserne capace. Ma ho svolto anche ruoli più umili, lì si lavora dalle sette del mattino all’una di notte: non tutto è per tutti, bisogna essere consci delle scelte che si fanno, in ogni campo. Tanto per capirsi: ci sono persone che vogliono vendere polizze e altre che vogliono diventare a.d. della compagnia che le propone. Hanno senso entrambe le scelte, ma siamo agli antipodi per impegno e impatto emotivo».
Scontato chiederle il suo contributo al vivace dibattito sulla mancanza di vocazioni nel suo settore.
«Da Dina provo a rendere tutto sostenibile umanamente, ogni giorno, da quando ho aperto. A volte prendendo decisioni non facili: ad esempio, ora, ho deciso di rendere il ristorante stagionale. Saremo aperti nove mesi l’anno e poi, come ho detto, solo chi si sentirà legato al progetto si fermerà. È molto difficile chiedere storie d’amore a chi fa il nostro mestiere, comunque è un problema complesso».
Forse va proprio migliorato il sistema.
«Sicuramente, a partire dalle falsità che si continuano a dire e leggere. È giusto spiegare che il nostro è un lavoro durissimo e quasi senza senso, a meno di non possedere enorme passione e voler investire un sacco di tempo per crescere. Io provo a farlo, solo a casa mia, e con grande fatica. Ho smesso di pensare di poter cambiare il sistema».
Fonte: brescia.corriere.it