Tre anni fa, Alberto Gipponi stava per aprire il suo locale in un’anonima casa di Gussago, dedicato alla nonna materna. Dina è stato subito un piccolo fenomeno, per la visione (non solo) culinaria di un inquieto laureato in sociologia che a 35 anni decide di fare il cuoco e a 37 di crearsi un posto fuori dal comune. In pochi mesi, viene eletto Sorpresa dell’Anno dalla Guida di Identità Golose e diventa meta gourmet, non lontano per tasso di curiosità da quello per Lido 84. Con una profonda differenza: mentre la cucina di Riccardo Camanini (allievo di Marchesi e cuoco da una vita, questo conta) mette tutti d’accordo, quella di Don Gippo divide. Molti critici lo esaltano, altri parlano di bluff mediatico. E anche i clienti a volte restano perplessi, per piatti troppo provocatori. Sono passati poco più di mille giorni da quel 17 novembre 2017, ora quanti non lo amano riconoscono che Dina sia diventato più affidabile. Forse Gipponi si è dato una calmata rispetto agli eccessi. «No, all’opposto: sono convinto di andare più veloce. Rimango fedele a me stesso, la linea è la medesima, ossia ‘fare felice la gente’ — risponde — oggi la calibro meglio. Dina fa ricerca, accontenta l’appassionato che cerca qualcosa di davvero intenso. Però non siamo un Tre Stelle Michelin quindi anche mia zia trova piatti in grado di accontentarla, quasi tagliati su misura. Siamo artigiani, no?»
È un vero peccato dover festeggiare i tre anni a locale chiuso.
«Vorrà dire che porteremo nelle case dei nostri amici – e sono tanti, per fortuna – lasagne, casoncelli, millefoglie e panettone. Forse, prepareremo un menu speciale in delivery, proprio il 17 novembre. Piatti veri, non ricette da spiegare online alla gente».
In che senso?
«Il primo lockdown è stato paralizzante, per i bresciani in particolare. C’era paura vera, non a caso i ristoratori hanno iniziato tardi con il delivery a meno che non fossero già attrezzati. E un mare di cuochi ha riempito i social perché le persone erano tornate ai fornelli. Oggi, siamo pronti. La vera rabbia è che io stavo recuperando la perdita di marzo, aprile e maggio. Ora tutto è crollato nuovamente».
Qualcuno dice che i ristoratori hanno diritto a lamentarsi ma non sempre hanno seguito le regole sul distanziamento.
«I codici erano chiari, non tutti li hanno rispettati. Detto questo, è necessaria una distinzione a monte tra una pizzeria con 400 coperti in 500 mq e un locale come Dina che ne ha 30 in 200 mq. Però, io piastro le seppie e non sono virologo né politico».
Ha letto lo scritto di Bottura al Corriere della Sera in difesa della categoria?
«Lui è il ‘filantropo dei miei sogni’ e non sarei qui senza l’esperienza alla Francescana. Sono richieste trasversali per un settore che fatica a sostenersi nella normalità, figuriamoci adesso: bisogna spaccarsi la schiena per sostenere il gioco e crearsi una clientela. Forse, la cosa che mi rende più orgoglioso è la relazione creatasi con molti ospiti, divenuti amici. Gente come Roberto Tosca, grande gourmet, mancato ai primi di ottobre».
Invece, tornando indietro, cosa non rifarebbe?
«Lascerei più spazio ai collaboratori, accentravo ed ero sempre in sala dove ora appaio il giusto. Ma i tre mesi di lockdown mi sono serviti per ragionare, studiare, testare: così Dina è migliorata tantissimo alla riapertura di giugno, vedevo i clienti uscire felici e prenotare nuovamente».
In un recente scritto su Identità Golose, dice ‘Voglio continuare a vedere il bicchiere mezzo pieno’.
«Ogni limite regala nuove opportunità. Lavorerò senza clienti seduti da Dina e mi applicherò pensando alla riapertura che spero arrivi presto. Ho letto una grande frase di Philippe Leveillè: ‘dobbiamo fare molto e parlare poco’. Ecco».
Maurizio Bertera
Fonte: Corriere della Sera – Ed. Brescia