Dalla buona terra al mosto che si fa vino: fermentazione delle uve

Seguito dell’articolo “Dalla buona terra al mosto che si fa vino“.

Fotografia di Angelo Cartella

Ai cultori del vino (che mi hanno scritto in privato) i quali ritengono avrei dovuto entrare un pò di più nella descrizione del processo di fermentazione penso poter dire: “Ciò che trasforma il mosto da succo di frutta nella bevanda che ha dato origine all’enologia, è la fermentazione”.
Si tratta del processo fondamentale che muta gli zuccheri in alcol, sino a conferire al vino quell’armonico insieme di sapori che lo caratterizza, quella cosa che gli esperti definiscono “bouquet”. Il forte sviluppo di anidride carbonica assai percettibile, a causa della quale i nostri genitori non ci lasciavano entrare in cantina, è il segnale che dopo un breve periodo di calma del mosto comincia la fermentazione di carattere tumultuoso. La/le vinaccia/e (insieme di bucce, graspi, ecc.) forma/no il cosiddetto “cappello”, che la pressione del gas tende a portare a galla. Questo è il momento che i nostri genitori e nonni attendevano e lasciando ogni altro dovere correvano a “furà la eza” (forare o bucare la vezza od il tino in fermentazione) in realtà si preoccupavano di forare (bucare) l’insieme del noto “cappello”.
Dal momento che la flora batterica è situata sulle bucce, se il cappello rimanesse a galla il processo fermentativo andrebbe più adagio. Necessita perciò, forandolo, spingere l’insieme verso il basso, entro il mosto.

Vi è pure da ricordare che molte sostanze (coloranti e tannini) ancora contenute nelle bucce non verrebbero estratte e verrebbero a mancare al prodotto finito, il vino che varierebbe di gusto e di olfatto. Per questo si eseguono, come detto sopra parlando dei nostri avi, le “follature” (in dialetto forature), cioè si frantuma e si fa reimmergere il cappello. La frequenza ed il numero delle follature è pure un modo per governare l’estratto del vino. Oltre alla suddetta operazione, analogamente si opera anche il “rimontaggio”, vale a dire l’estrazione mediante pompe dal fondo del tino (o della vezza, “eza”) del mosto in fermentazione, col quale si irrora poi il cappello.
Volendo, con l’uso di graticci di legno, si può mantenere il “cappello sommerso”, tenendolo sotto il pelo del liquido in fermentazione. La poca immersione del cappello entro il liquido o mosto in fermentazione, produce per così dire una vinificazione, più o meno, “in bianco”, infatti, si riducono le quantità delle sostanze estratte dalla vinaccia. Durante la fermentazione, soprattutto quando l’uva presentava ammaloramenti diversi (muffe, ecc.), per evitare lo sviluppo di microrganismi dannosi si aggiungeva al mosto anidride solforosa, nella forma di bisolfito o metabisolfito di sodio. Un accorgimento il quale restando entro limiti suggeriti dalla tecnica, è una pratica ammessa, senza essere ritenuta una sofisticazione.

Quante volte mio padre mi mandò alla farmacia a comprarne, ovviamente non conoscevano l’esatta denominazione chimica o commerciale, per noi era solo “bisulfìt” e si presentava in bustine già pronte (tanti grammi per ogni quintale o ettolitro di mosto). Dopo la fermentazione si passa alla svinatura: separazione del mosto dalle vinacce e collocazione del mosto (quasi vino) in altro contenitore. La fermentazione continua ancora per un po’, poi si ferma, per riprendere con i primi segni di caldo primaverile. Andando a terminare gli scambi chimici, le sostanze sospese ed insolubili nel vino vanno a depositarsi sul fondo formando la feccia. Da questa il vino viene separato con i travasi che hanno anche il compito di aerarlo. Le vinacce vengono torchiate, anche ri-torchiate o sovratorchiate e destinate alle distillerie per ottenerne grappa.
Questa è un’altra …impresa, di cui abbiamo parlato in precedenza.

Autore: Achille Giovanni Piardi

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