Lasciate ogni preconcetto o voi che entrate. Perché da Dina a Gussago potreste vedervi recapitare al tavolo un menù in bianco, senza alcuna indicazione tranne la scritta introduttiva «Done is better than perfect» (Fatto è meglio di perfetto), un piatto che nel nome richiama il bidet, o un altro in un contenitore che ricorda da vicino una pattumiera. Ma del resto è l’intera vicenda professionale di Alberto Gipponi, cuoco ed anima di questa nuovissima «sensazione» della ristorazione gourmet bresciana, a dettare i presupposti inusuali sui quali il locale ha preso vita a novembre dello scorso anno: la sua è stata una vera e propria rivoluzione esistenziale in nome dell’amore per la cucina, di una vocazione talmente incontenibile da portarlo addirittura nelle cucine della mitica Osteria Francescana di Modena, dove lo chef Massimo Bottura ha riconosciuto in lui, autodidatta senza esperienza, un talento da coltivare assolutamente.
«Ho 37 anni, ma per 35 anni ho fatto tutt’altro – racconta Alberto Gipponi -. Ero coordinatore di un grosso ente benefico bresciano, ma la cucina mi ha rincorso in maniera patologica per tutta la vita: sono anni che cucino per passione, approfondendo, con tante degustazioni ed un rapporto con il cibo molto forte. Poi, due anni fa, nel mezzo di un moto di profonda insoddisfazione personale, l’occasione di fare un’esperienza in Friuli all’Orsone di Joe Bastianich. Ho preso una settimana di ferie e sono partito. Dopo tre giorni piangevo e volevo scappare. Dopo quindici giorni piangevo perché me ne dovevo andare. Quel 17 ottobre 2015 sono letteralmente rinato. Ed ho capito che il mio cuore non mi lasciava più alternative». Sono seguiti sei mesi allo stellato da Nadia a Castrezzato. Poi, il 9 aprile 2016, l’incontro con il mito Bottura. «Sono andato a mangiare a Modena, sono riuscito a conoscerlo, a parlargli del mio primo piatto concettuale del quale gli ho lasciato la storia scritta. Lui l’ha letta per davvero e qualche giorno dopo mi ha telefonato per complimentarsi con me. Non riuscivo a crederci. Il 9 giugno sono tornato, mi sono attaccato a lui pregandolo in ogni modo di prendermi per uno stage. Non voleva saperne: poi ha accettato. Oggi lo considero il mio filantropo: nei primi tre giorni mi guardava malissimo, ma alla fine ha capito che cucinare per me era la cosa più importante al mondo. È stata un’esperienza di vita: ho imparato che le ricette non sono importanti, che la cucina è amore, passione, emozione». È passato così un anno, nel quale si è inserita anche una parentesi al Carlo Magno da Beppe Maffioli. «Poi la famiglia mi richiamava a Brescia, insieme alla voglia di raccontare la mia storia ed il mio bagaglio culturale. Ho lavorato tanto per mettere le mie mani in linea con la mia testa, il mio cuore, il mio palato. Mi sentivo pronto per un locale tutto mio. E sono arrivato a Gussago, dove ho trovato questo locale chiuso da qualche tempo».
È nato così Dina: non senza un brivido iniziale. «Mancavano tre ore all’inaugurazione: ho portato all’aperto un pentolino d’olio bollente e una folata di vento improvviso l’ha incendiato. Ustioni di terzo grado ad entrambe le mani. Pensavo di morire. Mi hanno prospettato un mese di degenza. Poi ho avuto la fortuna di incontrare la dottoressa Chiara Gregorelli: ha ascoltato la mia storia, abbiamo pianto insieme, mi ha bendato e rimandato al ristorante imponendomi di tornare la mattina dopo. Così sono riuscito ad aprire. Mi hanno operato il 30 novembre. Un miracolo». Ed è nata Dina. Un’esperienza stordente. Fin dall’ingresso. «Era il nome della mia nonna, che trovo retrò e contemporaneo, elegante ed informale come spero sia questo luogo. Per l’accoglienza ho pensato ad una camera di decompressione che aiuti a lasciar fuori la vita reale, dominata dall’opera dell’artista contemporaneo Jonathan Mk Unntil then if not before, acquistata qualche tempo fa». Altre opere d’arte provenienti dalla Galleria Minini sono in mostra all’interno suddiviso in vari ambienti: Cucina e Veranda raccontano il ristorante e la sua filosofia, il Laboratorio è per iniziati che vogliono lanciarsi in esperienze più spinte. Tra icone del design (lampade di Sarfatti, la mitica Ergonomica di Mangiarotti prodotta dalla Mepra di Lumezzane), Gippo sviluppa il suo racconto per creazioni gastronomiche, attraverso un degustazione che il commensale scopre passo dopo passo: ogni piatto una storia, un concetto, una riflessione. Si parte con «Da dentro al Sacchetto casoncello crudo ma cotto», un tuffo nella memoria di tutti i bresciani che almeno una volta hanno rubato il casoncello crudo alla nonna prima che finisse a cuocere in pentola, per proseguire con «Tutto ci passa attraverso e ci cambia», che racconta come l’uomo sia anche un filtro, una Crema di cozze con crema di pomodoro confit piccante, erbe aromatiche, aria di limone, pane croccante e tartare di fungo servito in bidoncino del pattume realizzato con la Mepra di Gianni Prandelli. Un concentrato di sapori esplosivo, come «No Secondo No», zuppa di pesce fredda con aria di latte di tigre, cialda al nero di seppia, bottarga: omaggio alla proprietà intellettuale, ma anche una seduzione per il palato. Come primo, «Ne Mangerei Un Bidet»: Casoncello con crema al Castellaccio di Corte Franca, e polvere di salvia. Poi «Alice Attraverso Lo Specchio», un «giardino delle meraviglie» ispirato al libro di Lewis Carroll, e l’«Agnello nella bocca del lupo»: un piatto sulle attrazioni fatali in cui la carne di agnello è marinata nella melissa (detta anche bocca di lupo) con crema patate arrosto, spinaci, radici amare di Soncino, fondo d’agnello e consommé finale di funghi e melissa. Il gioco a volte si fa un po’ cerebrale: come in «Che Cavolo Fai», dessert al cavolfiore che assume i toni di una provocazione un po’ gratuita. Ma per 55 euro è senz’altro un’esperienza da provare almeno una volta. Vini esclusi, da scegliere in una carta va da sé anticonvenzionale: niente Franciacorta, qualche Champagne, e chicche assortite pescate prevalentemente nel mondo del naturale, del biodinamico, dei vignaioli fuori dal coro con produzioni limitatissime. Anche questo è Alberto Gipponi.
Claudio Andrizzi
Fonte: Bresciaoggi