Gussago, fine anni 1930. Fotografia dei campi di lino ai Filunàss del Santolino. Archivio famiglia V. Angelo Cerlini (1909), curato da Gian Vincenzo Cerlini (1937-2017).
Un tempo sulle irte pendici della Valtrompia, come in quelle delle valli laterali della più nota Valcamonica si chiedeva alla magra terra, coltivata a campo, la produzione delle granaglie occorrenti per gli abitanti, ma si domandava pure l’abito, il vestito; canapa e lana insieme formavano una specie di tessitura chiamata “mezalà”, anche “Mazalà” in Valcamonica e Valsaviore ai piedi dell’Adamello, cioè mezzalana, di cui vestivano uomini e donne.
Anche a Gussago, pure nelle valli bresciane in genere, nei campi intorno agli abitati si coltivava la canapa e il lino; per Gussago nella zona della chiesa detta dèl Santulì, Santolino, denominata Filunàss. Gli steli ricavati da queste piante si lavoravano con un attrezzo chiamato “gramula” per renderli morbidi e puliti. I fili venivano filati con la rocca e in seguito, con l’uso dei telai, si otteneva il tessuto. La tela per la biancheria si otteneva tessendo insieme fili di lino e di canapa. Per ottenere il tessuto di colore bianco le donne lo stendevano sull’erba e lo bagnavano in continuazione, mano a mano che si asciugava. Nello stesso modo si otteneva la tela per confezionare i vestiti, che veniva però colorata. I procedimenti descritti erano l’unico modo per avere a disposizione i tessuti dal momento che non c’era la possibilità di acquistarli. [Filunàss da Filù lonch è larch = Filari lunghi e larghi].
Nel 1810 – tra i Commentari dell’Ateneo di Brescia – Camillo Ugoni si occupa del come applicare al territorio del Dipartimento del Mella – Gussago compresa – la pratica delle nordiche Fiandre nella coltivazione del lino. Ancor prima nel periodo tra XVI e XVII secolo, seppure quasi solo nella bassa Lombardia alcuni studiosi ed imprenditori avevano valutato come diffonderne la piantagione e l’arte della lavorazione. Che pianta è quella del Lino?
LINO e Linifici (da enciclopediabresciana.it)
Pianta oriunda, secondo alcuni, dalle zone comprese fra il mar Caspio e il mar Nero, secondo altri, dall’Asia sud-occidentale o dal nord Africa. Si tratta comunque di coltura molto antica, già presente in Egitto, 4 mila anni prima di Cristo. e nota ai Babilonesi, ai Greci, ai Romani, ai Germani. Nel medioevo essa assume importanza nel centro Europa e Russia. Nel sec. XIII si diffuse ancor più anche in Italia sostituendosi al cotone anche nella produzione della carta. La coltura si diffuse talmente nel 1400 da richiedere un mercato apposito al centro della città di Brescia dove la chiesa ivi esistente venne chiamata della “Madonna del lino” [Appena restaurata, 2020, ed a ridosso dell’attuale piazza del Mercato. N.d.r.]. In effetti nei secoli XV e XVI la produzione ed il commercio del lino andò occupando sempre più artigiani e mercanti. (…). Le zone di peculiare diffusione di tale coltura furono sempre quelle vicine all’Oglio anche se non mancarono coltivazioni nelle stesse valli (bresciane; come anche ai Filunàss dè Güsàch. N.d.r.). Un mercato molto attivo del lino si sviluppò a Bagnolo. Se la produzione di tele di lino fu sempre minacciata dalla concorrenza fiamminga e francese, floridissima fu quella di filati ed «azze» di refe, inviate di solito a Venezia senza obbligo di dazio di entrata per un privilegio concesso nel 1520, tenacemente fatto valere nel maggio 1546 da Agostino Gallo. Il dazio di uscita dal Bresciano era di 20 «bagatini» al peso, per un valore complessivo di circa 1000-2000 ducati, motivo per il quale i dazieri si opposero alla proposta di soppressione. [Un Peso = circa 8 chilogrammi; in dialetto: èn Pes. N.d.r.]. Più tardi neppure il lino bresciano sfuggì alle pesanti tassazioni venete e nel 1560, certo Luigi Pandini, propose alla Repubblica, affamata di denaro, l’aumento del dazio di esportazione delle «azze» e delle tele di lino da Brescia, assicurando un maggior introito di ben 25.000 ducati. Il refe bresciano, veniva utilizzato tra l’altro nell’arte del ricamo i cui modelli vennero messi a stampa in Toscolano dal tipografo Alessandro Paganini: “Il libro del Borato, libro de recami per el qualo se impara in diversi modi l’ordine e il modo per recamare”. Nonostante i dazi alla fine del secolo XVI e agli inizi del secolo XVII lavoravano il lino molte botteghe in città, e in altri centri della provincia. In città di Brescia esistevano 14 filatoi mentre l’imbiancatura veniva fatta a Salò in 80 filatoi. Nel 1572, secondo una relazione del capitano Piruli, venivano prodotte 225 mila pezze di lino delle quali solo 25-30 mila erano consumate nel Bresciano ed il resto esportate. Agli inizi del ‘600 secondo il Rossi si esportavano all’estero 200 mila pesi di lino (valutati <più tardi> dallo Zanardelli ad un milione e mezzo di chilogrammi). (…). Una valutazione dello stesso Rossi dava più di 10 mila persone mantenute da tale coltivazione. Tuttavia la produzione andava incontrando difficoltà specie per i trasporti attraverso il fiume Oglio. La coltivazione e la lavorazione continuò comunque attiva per tutto il seicento. Una guida d’Italia del 1659 ricordava come specie in piazza Loggia si vedessero esposte “sottilissime tele di lino”. Continuava sul Garda e specialmente in Salò la produzione e l’imbiancatura del refe che declinerà solo agli inizi dell’800. Si trattava di lino greggio proveniente dalle provincie di Crema, Cremona e Bergamo candeggiato nelle “cure” che si trovavano sui rivi d’acqua da Salò a Fasano e che dava refe ricercatissimo in Italia e fuori. La crisi economica della Serenissima [Repubblica di Venezia] compromise anche la produzione del lino per il quale le autorità (come il 7 aprile 1698) obbligavano a denunciare e sulla quale mettevano sempre più gravose tasse. Ma la lavorazione come la produzione continuarono e accanto ai moltissimi telai domestici, nella città (di Brescia) si contano 118 tessitori del lino e del “bombace”. (…). (…).
Bombace: questo termine si usò comunemente anche a Gussago sino a non molto tempo fa (mia mamma l’utilizzò ancora all’inizio del 2004) certamente non in questa dizione raffinata, bensì nel nostro dialetto gussaghese di Bombàs/Bumbàs/Bombaz (parola antica del secolo XVI derivata dal latino Bombax. Variante di bambagia, anche cotone). A Gussago la si utilizzava/utilizzò per dire spago, anche Cutù; ma questo è/sarebbe un altro discorso …che ci porterebbe lontano dal lino/linum su cui stiamo conversando.
I più curiosi/interessati agli sviluppi della coltivazione e lavorazione del lino possono continuare cliccando su http://www.enciclopediabresciana.it/enciclopedia/index.php?title=LINO_e_Linifici)
Negli anni Trenta finanche ai primi Quaranta del Novecento l’impegno nella coltivazione del lino era ancora fiorente nella nostra Gussago, come dimostrano le foto che proponiamo, dono della famiglia Cerlini (Archivio V. Angelo Cerlini di G.V. Cerlini). La presenza delle donne anche a pieno campo – e non soltanto poi per la lavorazione della pianta essiccata, sino alla tela – era assai forte.
Nel 2019 si è assistito, nella bergamasca, ad un “ritorno” della coltura del lino – “Linum usitatissimum”: pianta erbacea annua della famiglia delle Linacee. Ciò in particolare ad Astino col Linificio e Canapificio Nazionale per il quale si è potuto leggere: “E’ uno spettacolo raro – visto che la coltivazione è praticamente sparita negli ultimi decenni – quello che si potrà ammirare ad Astino, nel Bergamasco, dove da metà giugno adulti e bambini potranno osservare un campo di lino in fiore, con il suo panorama di sfumature azzurre violacee al mattino (dalle nove, quando i fiori si schiudono) e verdi nel primo pomeriggio (quando sfioriscono). Raro perché la coltivazione è quasi sparita negli ultimi decenni, descrivendo il naturale e poetico processo di fioritura degli steli di lino. Il mese scorso, aprile 2019, Linificio e Canapificio Nazionale (Marzotto Group) ha seminato a lino due ettari, da cui saranno ricavati 1000 kg di fibra di lino che saranno filati a Villa d’Almé. Un filo in limited edition, 100% Made in Italy e a KM zero, che verrà acquistato in esclusiva da Albini Group per tessuti destinati alla moda e da Martinelli Ginetto per tessuti d’arredo. (ANSA, 2019)”.
Linum usitatissimum: pianta erbacea annua della famiglia Linacee alta circa 1 m, con radice fittonante, fusto glabro, sottile, ramificato solamente all’estremità e con corteccia fibrosa. http://www.summagallicana.it/lessico/l/lino.htm – Originario forse dell’Asia centro-settentrionale, ha foglie lanceolate, lisce, color verde scuro e fiori raccolti in racemi terminali, per lo più azzurri o blu intenso; il frutto è una capsula formata da 5 o 10 logge contenenti numerosi semi di forma ovale compressa, lisci e oleosi. Se ne coltivano più varietà sia da fibra sia da seme: nell’Eurasia centro-settentrionale è coltivato prevalentemente per la fibra, nell’America Meridionale e in India per il seme. La varietà da fibra infatti richiede clima temperato umido e terreno alluvionale profondo e ben lavorato; la semina deve essere molto fitta affinché le piantine si sviluppino, per quanto possibile, in altezza, in modo da produrre un tiglio lungo e flessibile. Il lino da seme invece predilige i climi caldi e asciutti e ha minori esigenze pedologiche e colturali. Il raccolto del lino da semi avviene a completa maturazione dei semi, dai quali, per pressione o estrazione con solventi, si ricava un olio essiccante; sempre con i semi, nella farmacologia popolare, si preparano decotti usati quali emollienti e antiflogistici, e cataplasmi risolventi e revulsivi per raccolte purulente e catarrali. (…). Dei “rimedi”.
Di questi “rimedi” parlavano spesso le nonne, che avevano dovuto usarli quando, giovani, erano state colpite da polmonite oppure si era ammalato qualcuno in famiglia, cosa assai frequente per chi lavorava in campagna: …bastava aver trascurato una sudata da sforzo lavorativo correlata ad un colpo d’aria. Erano tempi in cui gli antibiotici non esistevano ancora e la linusa aiutava a guarire. Utilissimi anche per più semplici “acciacchi” – avendo proprietà emollienti e rinfrescanti – nella cura delle affezioni respiratorie, bronchiti, tosse. Anche chi, ora, scrive passò per questo …rimedio, una qualche volta. Note a Gussago le cosiddette “papìne” o “pulentìne” (pappette spesse circa un centimetro) di pappa di semi di lino avvolte in sacchetti di tela o poste in una garza doppia ed appoggiata sul petto, coprendo con un panno di lana al fine di conservarne il calore, e da mantenere in loco per almeno 20 minuti. Linusa o, come scrive il Melchiori nel suo Vocabolario Bresciano – Italiano del 1817, “Linǔza = Linséme. Semi del lino. Da questi macinati e spremuti si ricava un olio molto usato in medicina, all’incirca come quello di ricino”. [Dè quan’ chè gherå miå i antibiotici, a cumincià dè la pènicilìnå, chè i ga l’erå za re, ‘n dèl tascapà, i suldàcc americani! È nóter mürìem amò per ‘na südadå pasadå ‘n dè ‘na bronchite trascüràdå].
Per tornare alla tela ed agli indumenti, abiti di vero puro lino, chiudiamo con un adagio paesano tra donne, ma reale e sostanziale, di quando a Gussago si sentiva affermare: “chèsto l’è dè lì è lì” = Questo è di lino e lino > puro lino, senza aggiunta di altre fibre.
A cura di Achille Giovanni Piardi