Febbre da miniera, contagiati anche gli studenti

Miniera Val Volpera

I sassi «del diàol» o «carbù». Così erano e sono chiamati, dai gussaghesi di tutte le epoche, i sassi scuri che prendono «magicamente» fuoco, e che ancora oggi è possibile ritrovare nelle vicinanze dell’antica miniera – sopra la frazione di Piedeldosso -, tornata ad incuriosire e a interessare, a seguito dell’avvistamento di alcune persone, forse tecnici di una società mineraria, all’imbocco del pozzo che conduce in profondità, dentro il giacimento realizzato alla fine degli anni ’20 per lo sfruttamento degli scisti bituminosi.

«Raccogliere quelle pietre era diventato il nostro gioco preferito – ricorda un anziano gussaghese, tornato, dopo anni, nei pressi della miniera, incuriosito dalle voci circolanti in paese -. Noi ragazzi salivamo in gruppo verso la Val Volpera e, lì, facevamo incetta delle pietre scure e unte. Giunti a casa le buttavamo tra le braci e i sassi prendevano fuoco».

Le rocce in questione, impregnate del bitume presente nel sottosuolo, erano, in passato, altamente infiammabili (oggi, le pietre presenti nelle vicinanze della miniera, rimaste esposte agli agenti atmosferici, hanno mantenuto il colorito nerastro ma perso l’infiammabilità quasi del tutto). Questo fenomeno particolare – quasi stregonesco – aveva generato leggende, storie, racconti e miti di ogni tipo in paese, tanto da conferire a questi sassi neri la denominazione di «pietre del diavolo». Pietre che risvegliano l’interesse e accendono la curiosità. Anche i ragazzi delle scuole medie, nei giorni scorsi, si sono portati in prossimità dell’ingresso – protetto da una rete -, in compagnia del Gruppo Sentieri di Gussago, per studiare lo scavo, la natura di queste pietre e la vita dei minatori che, nel 1928 prima e nel 1946 poi, hanno lavorato all’estrazione degli scisti dai quali ricavare bitume. Una miniera oggetto di innumerevoli leggende: in paese c’è chi dice che qui fossero nascoste casse d’oro dai tempi del fascismo, o le armi dei partigiani.
Federico Bernardelli Curuz

Fonte: Giornale di Brescia

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