Fotografia di Giuseppe Reghenzi scattata a fine estate 2020 nel tratto a nord di via Roma, a Gussago.
Dietro quell’uscio a più ante si apriva l’officina, il grande laboratorio del meccanico di biciclette Cichìno, al secolo Francesco Mena. Lo vediamo in foto, sulla sinistra. Vi entravi, dopo aver superato bicilette in riparazione e poi anche motorette che stavano sull’ingresso ed in strada, tra gli addetti, quando ti serviva un pezzo di camera d’aria onde riparare quella della tua; lo seguivi a sinistra nel ripostiglio/magazzino ricoverato sotto di una tettoia.
Achille dopo aver visto su Facebook la foto di Giuseppe Reghenzi che riproponiamo anche qui, ha aperto, negli infuocati giorni di fine luglio 2020, con questo annuncio: <<… chi dei lettori se la sente di raccontare un po’, con capo e coda, della storia di questa officina artigianale? Voglio dire, condotta entro questo locale dal malandato odierno portone che si vede sul lato sinistro “”dè rimpèt a la cà de Bigì Poétå””>>.
Il primo ad intervenire è ancora Giuseppe, l’autore della foto: “COME AVEVO SCRITTO ALTROVE, IO DA CICHINO E DAL GINO CI ANDAI NELL’ESTATE 1964, SMONTAVO E RIPARAVO GOMME DI VESPE E LAMBRETTE A IOSA, IL GINO SE LO RICORDA ANCORA MOLTO BENE”>>. Segue Mariangela Mena, nipote di Cichìno: “Era l’officina di mio zio Cecchino dove si riparavano biciclette e poi, come dice Giuseppe, anche moto, lambrette, vespe” – aggiunge Mariangela. Gino suddetto è stato, in quegli anni lontani, il compagno di lavoro di Cichìno, si tratta di Gino Raineri originario di Rodengo.
Il signor Gino è in vita; prima lo incontravo ogni giorno, soprattutto comminando lungo vicolo del Canale, ora poco.
Mariangela Mena: “… data l’età, Gino, ha avuto un po’ di debolezza, ora si sta riprendendo, sai com’è con l’avanzare degli anni si perdono le forze”.
Reghenzi, quale piccolo dell’officina: “SMONTATA LA GOMMA, ESTRATTA LA CAMERA D’ARIA, QUANDO IL FORO NON ERA EVIDENTE E NON SI CAPIVA DOVE FOSSE, ENTRAVO NEL CORTILE DI FRONTE, dimora di ‘Bigì Poetå’ – Codenotti DOVE VI ERA UNA VASCA di una bella fontana PER IMMERGERE LA CAMERA E VEDERE, DALLE BOLLE, DOV’ERA IL FORO”.
Achille aggiunge. “Nell’officina vi entrai poche volte, tuttavia mi fermai molte volte sull’uscio o, meglio, in strada solo per un poco di gomma di camera d’aria, di para – colla speciale per unire gomma con gomma – e di cartavetro per carteggiare la parte attorno al foro nella camera onde porre in loco una pezza, un rappezzo; soldi per sostituire l’intera camera non ve ne erano, sino a quando la ruota, viaggiando, non facesse troppi salti a forza di pezze e di rattoppi.
Debbo, però, tornare un po’ più indietro nel tempo. Vidi questa attività attraverso gli occhi di un bambino 4/5 anni, 1952/53, sistemato sul “cestino” – un seggiolino agganciato al manubrio della bicicletta di mia madre – quando vi transitavo, sia in andata quanto in risalita, scendendo da Navezze per via Roma, diretti o di ritorno dall’Asilo infantile Giovanni Nava situato in fondo al paese di Gussago, proprio in via G. Nava. Qui – sull’uscio del laboratorio – conobbi uno degli operai di Cichìno: Gian Vincenzo Cerlini (poi assunto in OM – Sala prova motori). Mia madre si fermava per le solite forature o per far riparare i freni della bicicletta, del tipo ancora a leva detti, in dialetto, “freni a batècå”; dovevano essere sicuri, scendendo da Navezze e prima di immettersi in paese, una volta superato il crocicchio definito “le quàtèr strade (Navezze con Piedeldosso e Roma)”.
Interviene Marchina Fiorello e siamo alla fine degli anni Cinquanta: “Da Cichìno i miei comprarono la mia prima bicicletta nuova perché avevo superato l’esame per accedere alle scuole medie. “ERA, FORSE, DI COLORE VERDE METALLIZZATO?” – suppone Giuseppe Reghenzi – “con MANUBRIO SPORT, DI SICURO”. Carissimo, la bicicletta era di un verde oro metallizzato ed il manubrio tipo sport con i famosi scaccia spiriti; complimenti per la memoria – risponde Fiorello.
Ma Cichìno Mena e Gino Raineri chi sono stati in attività al servizio della popolazione? Soprattutto nei tempi della povertà e poi nei cosiddetti anni (1958 – 1963) del boom economico italiano. (Il miracolo economico italiano: un periodo della storia d’Italia, compreso tra gli anni cinquanta e sessanta del XX secolo, caratterizzato da una forte crescita economica e sviluppo tecnologico dopo l’iniziale fase di ricostruzione del dopo guerra).
Mariangela: <<Mio zio Cichìno MENA era di carattere buono e generoso. Avrebbe voluto proseguire la carriera in seno all’Aeronautica (era in ufficio), ma mia nonna ha preferito lui portasse avanti l’officina di riparazione biciclette dell’altro fratello Felice emigrato in Argentina il mese di gennaio 1949 (poi ritornato a casa in compagnia del fratello Giacomo) assieme al folto gruppo di gussaghesi. Zio non si sposò e visse della sua officina, accudendo i genitori. Le mie sorelle ed io gli eravamo molto affezionate: ci faceva regali a Santa Lucia e ci portava l’uovo di Pasqua. Possedeva un carattere diverso da quello di mio papà Giacomo; più loquace e accattivante. “Poi la disgrazia del primo Ictus nel 1968. I cugini, fratelli di Attilio Mena, che abitavano a Campione d’Italia, (quelli della casa gussaghese ubicata in Via Martiri della libertà) hanno provveduto alla riabilitazione dello zio Cichìno presso una clinica Svizzera. Tornò a casa abbastanza autosufficiente soltanto che, dopo qualche anno, è stato colpito una seconda volta costringendolo al ricovero presso l’ospedale Richiedei per parecchio tempo, dove morì”. Mariangela continua: “A me sembra che Gino Raineri abbia cominciato a lavorare presso l’officina dello zio nel 1960. Achille, ti domando: lo vedi in paese, ora?”.
Achille: no, non l’ho ancora rivisto, come invece, sovente, accadeva – sino allo scorso inverno – in Vicolo del Canale.
Mariangela Mena. “Questi particolari sulla famiglia me li raccontava mia mamma. La famiglia Mena di mio papà abitava inizialmente vicino alla chiesa, lato est, nel cortile prima di quello dei Ferlinghetti; in zona nord dello stesso: mio papà, mentre in lato sud viveva Caterina Signaroli, la cugina perché la mamma era sorella di mia nonna Paderno. Più tardi si trasferirono al cortile Gallia-Marcelli di via Chiesa, quello col bel portale e portone, come ancora oggi, poi in Vicolo Due Mori”.
Giuseppe Reghenzi, ritorna col suo bel modo spontaneo: CICHINO, COME GINO LAVORAVANO SEMPRE CON QUELLE TUTE INTERE, CON LUNGA CERNIERA, DA MECCANICO INSOMMA, CICHINO TENEVA SEMPRE IN UNA TASCA UN PEZZO DI STRACCIO, CON CUI PULIRSI LE MANI, SPESSO SPORCHE ED UNTE, POI ALCUNE VOLTE CI SI PULIVA ANCHE LA FRONTE SUDATA (ERA D’ESTATE) LASCIANDOVI VISTOSE STRISCIATE … colorate; L’ALTRA TASCA LA TENEVA SEMPRE MEZZA PIENA DI MONETA. CON I CLIENTI ED AMICI ANDAVA ALLA VICINA OSTERIA all’insegna “Due Mori”.
Achille: chi ricorda quando entrò in attività anche Gino e quando terminarono? So che Gino poi continuò da solo.
Mariangela Mena: “L’officina prima era dello zio Felice Mena ma essendo emigrato in Argentina, l’ha proseguita lo zio Cecchino Mena, come ho detto poco più sopra. Mi diceva mia mamma che però l’officina non era proprio lì, mi sembra, non vorrei sbagliare ma dove ora c’è la merceria Salini. Successivamente trasferita più a nord di via Roma, nei pressi di vicolo due Mori. Tornato dall’Argentina lo zio Felice iniziò l’attività della distilleria. Gino Rainieri venne a lavorare lì con lo zio nel 1960 o giù di lì perché lui era bravo con le moto, vespe, lambrette. Mi ricordo anche di un altro lavorante, allora giovanotto, di nome Sandro di Civine (non so il cognome) che ha lavorato per diverso tempo con loro. Poi lo zio nel 1968 ha avuto il primo ictus e ha proseguito nell’attività Gino Raineri”, trasferendola, poi, in Vicolo del Canale. Cichìno mena fu poi nuovamente colpito dallo stesso male e venne alloggiato al P. Richiedei.
“Gino” Igino Raineri (Ome, 1932), incontro del 31 agosto 2020: <<Sono andato a lavorare dopo la Classe quinta elementare, facevo il manovale a soli 11 anni con i muratori. Lavoravo per necessità familiare anche se detto lavoro non mi piaceva non essendo secondo le mie inclinazioni; infatti, a me interessava la meccanica, i motori per i quali avevo un’attitudine innata. Poco dopo accompagnato da mio padre, con la bicicletta, da Ome ci recammo a Brescia, via Milano presso un’azienda meccanica. Avevo, sì, una predisposizione per la meccanica, voglio dire i motori di piccoli e grandi veicoli, ma dovevo imparare. Lavoravo per apprendere anche in giornata di domenica. Fu proprio durante una di queste che vi andai, da solo, continuando in officina un lavoro di smontaggio appena iniziato, compiendo un lavoro pesante, superiore alle mie forze, per svitare due viti grosse. Ci riuscii con la forza dell’ingegno e pensando al modo di come riuscire far leva applicando, al momento, un braccio più lungo. Ero piccolo di statura e mingherlino e mi trovai innanzi un motore a 12 cilindri, di misure più alto della mia statura. Avevo appena iniziato a smontarlo e, come spesso accadeva, difficilmente trovavi chi ti insegnava le modalità: bisognava rubarlo il lavoro se volevi apprendere il mestiere! Ragazzino, nemmeno adolescente, com’ero non avevo neppure la sufficiente forza per poter compiere certi sforzi onerosi, comunque sempre mi adoperai con assidua volontà, senza disamorarmi od arrendermi. A casa avevo necessità economiche ed anche di altra natura familiare, forse, come tante altre famiglie economicamente povere, ma dignitose. Il titolare di questa impresa, almeno colui che era di origini toscane, un fiorentino, era bravo e buono, comprensivo: lì imparai bene e molto il mestiere che sarebbe stato quello della mia vita, anzi la mia vita assieme alla custodia dei miei genitori. Dopo qualche tempo, ancor prima del servizio militare, già passavo la sera presso l’officina di Mena, a dare una mano a “Cichìno” per quanto riguardava i motori. Dopo ver prestato il servizio militare – credo alla fine del 1952 – sono ritornato da “Cichìno” pur lavorando anche altrove: facevo un po’ di straordinario. Tutto per aiutare in casa. Eravamo inizialmente in cinque bocche da sfare e necessitavamo di tutto; tre maschi ed i genitori. Mio fratello più grande era nato l’anno 1929 e l’altro, più giovane tra noi, morì giovanissimo. Papà era sarto bravissimo in Ome, aveva imparato da suo padre, mio nonno, anch’egli sarto. Un giorno, una forte febbre colpì mio padre e perse la vista, il senso essenziale per un sarto, cercò altro lavoro, ma con vista ridotta a poche diottrie in solo occhio non era facile continuare a lavorare. Mamma si infermò ancora giovanissima. Mio fratello dovette cercare lavoro all’estero, lo trovò in Belgio dove vi rimase molti anni, fece poi ritorno dal Belgio e, con altri, avviò un forno di panificazione in quel di Nave, lì lavorò anche con Carlino Scolari “del detto Momi” di Navezze. Feci, come si sarà compreso, di necessità virtù! Per forza avevo in carico umano e reale i genitori e la volontà di mettere su famiglia. Con i miei risparmi, prima pagai i debiti della bottega, soprattutto la fornaia di Ome, cosa comune a tutte le famiglie povere, poi con il restante gruzzolo decisi di prendere moglie: Rachele Barcella di Rodengo Saiano. Una donna cui sono sempre stato grato e lo sono tuttora anche se deceduta da anni. Era brava in casa ed in più vi lavorava, prima tramite l’intermediazione di una signora di Rodengo e poi direttamente, per un’azienda di Torino confezionando e tessendo stemmi e fregi militari. Col suo lavoro ed immancabile aiuto e con il mio mestiere di meccanico ci comprammo l’appartamento. Tornando all’officina di Cichìno Mena, in quei lontani anni, quando ero poco più di un ragazzo vi lavorava anche Mario Pietta. Molto attivo, meticoloso, annotava tutto su dei bigliettini in sede di smontaggio e di grande volontà, ma la meccanica e, soprattutto, quella motoristica faceva fatica ad entrargli nel sangue. Pur più piccolo, lo seguivo e lo osservavo, ma a differenza smontavo e annotavo in testa le operazioni di smontaggio del motore dei veicoli riuscendo, in sede rimontaggio, a collocarle comunque nella giusta sede. A Brescia, in quell’officina, forse Trebeschi, avevo imparato e bene, “rubandolo il lavoro” al punto che quando chiedevo aiuto o perché mi mancava la forza fisica o perché avevo in animo di perfezionare, sempre più, le mie conoscenze, visto il risultato in cui ero giunto, ero lasciato solo, mi veniva detto: “Hai fatto fino qui, a questo punto vai avanti da solo e termina”. Come per dire che avendo visto la mia intraprendenza, pur in giovane età, potevo anche concludere da solo; però quando vi era, ad esempio, da usare lo spessimetro per regolare la misurazione del gioco valvole del motore, necessitava esperienza. Come ogni cosa, l’appresi col tempo, con l’impegno e la fatica. La meccanica motoristica mi piaceva ed oramai era entrata dentro di me. Forse un’attitudine innata, con una precisione come quella di un sarto, la stessa di mio padre figlio di sarto, trasferita ad altro settore. Mia madre era della Valcamonica, ma assai presto ebbe motivi di salute gravi. Pensammo di portarla in una casa di riposo e così avvenne, ma presto la ritirammo e la seguii io a casa mia, con l’aiuto di parenti. La dovevo alimentare non essendone più capace da sola, con me visse ancora sette anni; papà era già deceduto da tempo. Oggi ho 88 anni e sto bene>>. Vedo – interloquisce Achille – ed una meraviglia ascoltarti, sentirti raccontare come stai facendo. Oltretutto, improvvisamente, nel senso che non mi sono, quasi, nemmeno presentato e l’intervista non programmata, bensì frutto di un incontro casuale al bar, anche se ci stavo pensando da due mesi organizzandomi per venirti a far visita in casa. Come vedi siamo l’uno e l’altro …autodidatta, come lo fosti tu con la tua motoristica. <<Riprende “Gino” Igino domandando: come fet te dè cognom?>>. Piardi, è la risposta di Achille. “Gino”- Igino, riprendendo: <<Piardi, chèi dè Nèèze! Dei Piardi ho conosciuto Marianna, una brava donna, seria, a modo, molto gentile e sempre assai educata con le persone. Veniva alla mia officina sia quando ancora vi era Cichìno, sia dopo, quando ero da solo a condurre l’attività. Marianna andava a lavorare in fabbrica a Brescia guidando la Vespa: voglio dire quasi tutti i giorni a farmi vedere i danni, per lo più strutturali, della sua Vespa camminando su strade malmesse e piene di buche, compresa quella che scendeva da Navezze. Ammortizzatori deboli e quasi sempre scarichi e col veicolo, uno dei primi modelli, che montava il faro ancora sul parafango che copriva la ruota anteriore. Una posizione infelice dal punto di vista della resistenza, il quale prendendo continui scossoni dovuti al cattivo assetto stradale, e collocato a sbalzo con l’uso di due semplici viti fissate su di una lamiera debole, di poco spessore, non poteva che cedere. Molte volte inserivo sotto la lamiera del parafango, nascosto, uno spessore al fine di dare resistenza alla presa del fanale, diversamente rischiava di averlo sempre quasi penzoloni. Così per tutti i miei clienti dotati di una Vespa. Vedevo molto volentieri Marianna per la sua gentilezza e subito le riparavo il motociclo, sapendo che ne aveva di assoluto bisogno. Ah, era tua zia!>>. – Achille: sì, sorella di mio padre Francesco, era del 1919 ed andò alla Società Breda Meccanica Bresciana l’anno 1938, quale operaia alla fresatrice. “Gino” Igino: <<Che bello, era tua zia!>>.
A cura di Achille Giovanni Piardi
Fotografia di Giuseppe Reghenzi, anno 2020.