Strage di Gornij Vakuf, Paraga? Uccise per rubare

Sergio Lana, Guido Puletti e Fabio Moreni
Sergio Lana, Guido Puletti e Fabio Moreni

Condannato all’ergastolo per l’estrema crudeltà della sua condotta, lucida e determinata. Anefija Prijic, detto Paraga, ritenuto il mandante della strage di Gornji Vakuf, in cui morirono Sergio Lana, Fabio Moreni e Guido Puletti, uccise in territorio di guerra per depredare il convoglio dei volontari partiti da Brescia. Nelle motivazioni della sentenza, emessa il 2 marzo scorso, il quadro dell’eccidio, delineato grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, Cristian Penocchio e Agostino Zanotti, e consumato lungo la Diamond Road. L’esecuzione eseguita in un luogo appartato perché i corpi non fossero mai trovati. Nessun dubbio, secondo il tribunale, sulla natura umanitaria della missione che nelle ipotesi della difesa di Paraga nascondeva secondi fini, come il traffico di armi.

Anefija Prijic, il temibile comandante Paraga, si macchiò di un crimine di guerra, svolgendo un ruolo fondamentale nell’epilogo drammatico della spedizione dei volontari bresciani in Bosnia. Il tribunale di Brescia, nelle pagine delle motivazioni della recente sentenza, non ha dubbi su come si svolsero i fatti quel 29 maggio del 1993, quando a Gornji Vakuf, sulle colline a ridosso della Diamond Road, furono trucidati Sergio Lana, Guido Puletti e Fabio Moreni, mentre Cristian Penocchio e Agostino Zanotti riuscirono a salvarsi buttandosi nella radura. Fu il comandante a fermare il convoglio, a depredarlo, a sequestrare i mezzi dei volontari e a ordinare di uccidere i cinque. Per questo, il 2 marzo scorso, il giudice Carlo Bianchetti aveva stabilito l’ergastolo per Anefija Prijic (assolto dall’accusa di rapina e da quella, andata prescritta, per il tentato omicidio di Penocchio e Zanotti).

«L’ordine di uccidere civili innocenti, che oltre tutto vengono in aiuto con il loro impegno umanitario nel nostro Paese, pesa sempre tanto» aveva scritto il tribunale cantonale di Travnik nella sentenza di condanna emessa nei confronti di Paraga (che in patria aveva già scontato per questi fatti 14 anni di carcere), processato nuovamente a Brescia, su richiesta del Ministero della Giustizia, superando il principio di bandiera (secondo cui i contingenti militari – quale era quello comandato da Prijic, ufficiale dell’esercito regolare bosniaco – rispondono in via esclusiva alle proprie leggi e allo stato di appartenenza, quando operano fuori dai propri confini nazionali). A giudicarlo, dunque, è stato il Paese d’origine delle vittime. La ricostruzione dei fatti racconta il blocco del convoglio, carico di aiuti da portare alle popolazioni musulmane di Zavidovici. Racconta di come i cinque volontari vengano, su ordine del comandante, fatti incamminare su una collina. Racconta la dinamica dell’eccidio compiuto dai due militari Nihad Memic e Sabahudin Prijic (cugino del comandante), dei proiettili di un unico Kalashnikov che martoriano il corpo di Fabio Moreni che aveva intuito le intenzioni dei due e aveva urlato ai compagni di scappare. Racconta di Sergio Lana, colpito di fronte e anche alle spalle da entrambi i militari, e di Guido Puletti, freddato con sventagliate di mitra alle spalle. «I corpi degli italiani uccisi furono ritrovati molto distanti tra di loro e in direzioni di fuga diverse, il che esclude che due di loro abbiano potuto essere uccisi a bruciapelo mentre tentavano un attacco». Alla luce di questo, per il tribunale, risulta «inverosimile» oltre che «maldestro e contraddittorio» il ricordo dei fatti presentato da Paraga che ha sempre parlato di un’operazione sfuggita al suo controllo («avevo ordinato di liberarli») e di un’esecuzione estemporanea decisa dai due militari, costretti a difendersi dagli ostaggi che cercavano di disarmarli. Ma al comandante (una leggenda in patria, fonte di ispirazione per canzoni sulle sue gesta), di cui si nota «l’estrema crudeltà della condotta, lucida e determinata», a fronte di questa ipotetica insubordinazione, viene contestato il fatto di non essersi preoccupato della sorte dei volontari, quando dice di aver vomitato inciampando in un cadavere e di non aver denunciato l’accaduto ai suoi superiori (negli archivi dell’esercito bosniaco non c’è alcun rapporto sui fatti di Gornji Vakuf) e di non essere credibile (lui così valoroso). Per il tribunale la volontà di Paraga era che «le condotte predatorie rimanessero nascoste per sempre e i volontari semplicemente risultare dispersi in teatro di guerra», scegliendo per la loro esecuzione un luogo appartato in cui difficilmente sarebbero stati ritrovati i loro corpi se Zanotti e Penocchio non fossero rimasti in vita. Drago Brasovic, testimone a Travnik, aveva riferito che il comandante «aveva formato punti selvaggi sulla strada tra Gornji Vakuf e Novi travnik allo scopo di effettuare rapine, brigantaggio e di uccidere tutti i non musulmani che la percorressero». «Ciò che può escludersi con certezza è che la eliminazione dei “prigionieri” italiani fosse stata in qualche modo giustificata dalla natura anomala della spedizione dei volontari bresciani, che celasse dietro un’apparenza umanitaria scopi meno nobili, quali il traffico di armi ventilato dalla difesa». L’autocarro dei volontari, così come confermato dal comandante e anche da militari presenti quel 29 maggio, «non conteneva altro che vestiti e generi alimentari e di conforto». Queste le motivazioni dell’ergastolo a Paraga i cui difensori meditano ricorso in Appello.
Lilina Golia

Fonte: Corriere della Sera – Ed. Brescia

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