Dice di non aver dato nessun ordine. Di aver capito quanto era successo solo dopo essere inciampato su uno dei tre cadaveri. Sostiene che i suoi militari spararono per difendersi. Hanefija Prijic, il 52enne bosniaco accusato della strage di Gornij Vakuf nella quale il 29 maggio del 1993 persero la vita Fabio Moreni, Sergio Lana e Guido Puletti, racconta pure di aver vomitato tanto fu violenta la scena che gli si parò davanti agli occhi.
Il pm Silvia Bonardi, titolare del fascicolo aperto contro il comandante già condannato in Bosnia per questi stessi fatti a 13 anni di reclusione, non gli crede. Per lei le dichiarazioni fatte ieri davanti al gup Carlo Bianchetti, sono l’estremo ed inutile tentativo di tappare le falle aperte dalle sue differenti ricostruzioni. Per il pubblico accusatore Paraga era l’ufficiale al comando del battaglione che fermò il convoglio umanitario dei bresciani. Era il capo indiscusso delle operazioni, un eroe nazionale al quale nessuno, all’alba dell’escalation della guerra nei Balcani, avrebbe mai disubbidito e che nessuno avrebbe mai scavalcato. Per il pm – che ripercorre le testimonianze dei due superstiti di quell’imboscata di 23anni fa, i bresciani Agostino Zanotti e Cristian Penocchio – Prijic susurrò qualcosa ad uno dei due soldati che condussero i cinque volontari sull’altopiano nei pressi del posto di blocco, e con il loro Ak 47 falciarono Puletti, Lana e Moreni. Che il commando guidato da Paraga fosse intenzionato ad uccidere i bresciani, dopo averli privati del camion e del loro fuoristrada, per Bonardi è reso evidente dalla scelta di lasciare loro alcuni effetti, il che porta ad escludere la rapina, ma anche da quella di condurli nel bosco e non, come cercarono di sostenere, sulla strada della salvezza. Alle conclusioni del pubblico ministero si sono associati i legali di parte civile, gli avvocati Lorenzo Trucco, Alessandro Brizzi e Andrea Vigani.
Di tutt’altro avviso il legale di Paraga, l’avvocato Chantal Frigerio. A suo avviso a viziare il processo a Hanefija Prijic è anzitutto un difetto di giurisdizione: viene violato il «principio di bandiera», in virtù del quale un soldato, anche all’estero, risponde alle norme imposte dal suo ordinamento nazionale. Non solo. A condizionare l’inchiesta, stando all’avvocato Frigerio, diverse zone d’ombra. Il legale ha ricordato che i volontari bresciani si sono mossi senza autorizzazione in un pericoloso scenario di guerra. L’avvocato si è chiesta pure la ragione di quei 10mila marchi tedeschi che stavano portando a Zavidovici («A cosa servivano? A quell’epoca in Bosnia a parte le armi non c’era nulla da acquistare» ha affermato). Frigerio ha criticato la scelta di non approfondire il rapporto dei volontari con soggetti yugoslavi legati ai servizi segreti e al traffico di armi. «Non voglio dire che i nostri concittadini siano stati consapevoli protagonisti di traffici illeciti – ha spiegato il difensore – ma che possano essere stati inconsapevolmente sfruttati da mercanti di armi e si siano trovati per questo nel posto sbagliato al momento sbagliato. E non certo per volere del mio assistito, che mai ha dato l’ordine di uccidere».
Dopo gli interventi di accusa e difesa il processo è stato aggiornato al 20 gennaio per repliche. La sentenza è prevista per il 2 marzo.
Pierpaolo Prati
Fonte: Giornale di Brescia