Un espressione non proprio gussaghese, ma che rende bene l’idea del nostro antico modo di passare le serate nelle stalle. Addirittura porta questo nome un piccolissimo comune del Trentino con origini Cimbre.
Questo nostro raccontare può pure essere un semplice omaggio ai molti gussaghesi appartenenti a famiglie con origini camune e delle diverse, distinte convalli di Valcamonica (Val Saviore, Val Palót, Val Grigna, Val d’Avio, ecc.).
Neppure in tutta la Valle dell’Oglio si usa l’espressione del titolo tuttavia, pur assumendo colorazioni e sfumature precipue, il significato è lo stesso: momento di convivialità dioturna, dopo il duro lavoro ed in attesa del ristoratore sonno, dai più piccoli in fasce o dentro il “Repàr” ai grandi, agli adulti giungendo sino ai nonni e bisnonni.
Anche a Gussago, almeno sino agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, la vita serale in stalla era di necessitata abitudine. Riscopriamo le stalle dei nostri paesi, rivisitiamo quell’ambiente umido e correlato di ragnatele e dal profumo di fieno, ma vero centro di aggregazione sociale dei nostri nonni; luogo di vita contadina per stare insieme, per trascorrere le lente e lunghe serate autunnali ed invernali tra lavoro, curiosità, divertimento e preghiera.
In questi luoghi abbastanza poco luminosi si tramandavano di generazione in generazione le tradizioni, i racconti, le arti manuali delle donne e degli uomini: una vera fucina culturale. Il tutto sotto lo sguardo e la compagnia di quegli animali che facevano parte della vita di ogni giorno.
Qualcuno racconta: “Eravamo in dieci in famiglia: papà, mamma e otto figli. Avevamo soltanto due camere, dove non c’era posto per tutti, così i bambini più grandicelli dormivano nella stalla. D’inverno, alla sera, dopo il consueto ritrovo a “fa Lüserna” (o: “Filò”, …’N stala a Cöntà sö…”), per me e i miei fratelli c’era un letto nella stalla, infatti, in un angolo il pavimento era ricoperto di assi di legno e tutt’intorno veniva messa della paglia. Qui, avvolti in una coperta, noi passavamo la notte. Quindi niente pigiama, niente bagno, niente spazzolino da denti e via… in un attimo eravamo pronti per andare a scuola”. In qualche stalla, addirittura, si costruiva un soppalco, accessibile tramite una scaletta di legno, onde poter ricavare altri posti …letto.
“La stalla era spesso il luogo dove le persone molto anziane e ormai impossibilitate a svolgere qualche attività, passavano praticamente tutta la giornata rannicchiate in un angolo avvolte da un po’ di paglia e fieno. Con una certa frequenza anche le culle con i neonati venivano portate qui e affidate alle cure di qualche vecchia nonna che anche lei si trovava nella stalle alla ricerca di un po’ di tepore”. I senza stalla chiedevano ospitalità a vicini o parenti.
La vita serale era impostata sulla preghiera, a cominciare dai più piccoli, poi vi erano i racconti a volte ironici, o da incutere paura, spaventare (pur avendo insiti alcuni messaggi: la contrapposizione tra il bene ed il male e la presenza dei due comportamenti fra gli umani sotto diverse sembianze); quelli ironici erano frutto delle parole dello zio (Zio Barba, lo zio scapolo, fratello del nonno) con una trama riguardante, sovente, persone del paese o di centri viciniori.
Gli uomini, se non occupati in lavoretti passatempo, avviavano il gioco detto della Morra (la Mura), proibito ora come allora in luoghi pubblici. Gioco in cui due giocatori aprendo la mano in modo simultaneo formavano un numero con le dita, gridando ad alta voce un numero da due a dieci, tentando di indovinarne la somma. Altro gioco che si ricordi è la Tombola con in palio qualche semplice premio: patate, castagne, che quasi sempre venivano immediatamente cotte e consumate in compagnia.
Il radunarsi, dopo una giornata trascorsa a portare avanti tutti quei lavori legati alla vita contadina propri dei nostri luoghi, la sera rappresentava sì anche il momento del riposo ma che serviva pure a riflettere sul lavoro svolto durante le precedenti ore di luce ma anche a programmare il da farsi ed i compiti del giorno a venire: legna da tagliare o da “s-cèpà, letame da trasportare, muretti a secco da ricostruire, arnesi ed attrezzi da riparare (quali: “i decc al restèl”, “èl mànech al fiuchèl e po’ al badil e a la furca dèl fe e dèl ledàm”, …).
In molti luoghi del bresciano: in pianura, nella zona pedemontana, nelle Valli ed in montagna le serate nelle stalle prendevano anche altri nomi: “stremàs”, “stremadèt”, “stremadès”, “estrema dies” (quest’ultima espressione, più colta, indicava chiaramente la derivazione dalla lingua latina), ma tutti servivano ad indicare l’ultima parte del giorno: la serata trascorsa in stalla con tutte le tradizioni e il suo desiderio di stare insieme al calduccio. Così, almeno, sino a quando non giungerà, come poi giunse negli anni Cinquanta/Sessanta, la stufa. La stufa a legna che muterà l’aspetto delle nostre case e la convivialità, a cominciare dalla cucina, non sentendoci più necessitati a fare ne filò, ne lüserna. E non sarebbe finita qui, doveva, infatti, …arrivare anche la televisione, prima nelle osterie e poi in ogni casa (Quando, negli anni Cinquanta, il nostro gussaghese, pugile, Sante Amonti combatteva, ancora la scatola televisiva non aveva preso definitivo possesso di noi stessi ed del nostro conversare a tavola). Con la stufa e la televisione è sfumata l’occasione di ritrovarsi alla sera tutti insieme: giovani ed anziani, adulti e bambini. “E’ scomparso così un momento importante fatto di racconti, di scambio di esperienze, di giochi di società e di aggregazione comunitaria”. Bene fanno alcune Contrade di Gussago, a sale come a Ronco, a Civine ed anche in quel di Riviere (Parrocchia di San Girolamo a Civine) ad organizzare qualche bella tombolata sotto i caratteristici portici che danno sul cortile o vecchia aia.
La stalla era quasi sempre al piano terra ed all’interno si distinguevano vari spazi, ognuno dei quali aveva una specifica funzione. C’era la mangiatoia (Traìs), che mattina e sera veniva riempita di fieno per le mucche; queste prendevano posto sulla lettiera (lètéra, da: “fa lèt”) ed erano legate con una catena alla mangiatoia. Per tutta la lunghezza della lettiera il fosso (Dügàl) raccoglieva gli escrementi ed era cura del contadino pulirlo accuratamente ogni giorno e ricoprire, poi, la lettiera con le foglie secche (“Patöss”). Qui da noi gussaghesi, il fogliame arrivava quasi interamente dalla Valle di Navezze: “La al dèl Patöss”. Molti lo andavano a raccogliere notte tempo, “al ciàr dè luna”, legandolo in un bel mazzo (…èn masöl dè patöss per ‘na palanca o vent ghèi; ricavato utilissimo, quanto indispensabile, per un quartino o mezzo litro di vino domenicale, dopo la S. Dottrina, da consumare con gli amici).
“Patöss” per fare il letto (pulito) alle mucche onde fossero sempre ben in ordine. Non mancava l’ampio angolo riservato alla panche su cui sedevano le persone durante le lunghe serate invernali a godere del tepore emanato dal fiato e dalle esalazioni delle mucche. “Eravamo nel cuore dell’inverno o, perlomeno, di un avanzato autunno! …era sera! Era buio già da alcune ore! Finivamo di mangiare la scodella di minestra che la mamma aveva preparato. Il camino del focolare era stato acceso solo per il tempo necessario per cucinare e la stanza era piuttosto fredda. Ma era presto per andare a dormire. In questa stagione le sere erano così lunghe! Coraggio… ci aspettava un luogo tiepido e familiare: la stalla”. Qui vi erano gli animali e tutta la nostra vita in comune! “Era questo il nostro salotto”; sapevamo che dopo il saluto della buonanotte ci aspettavano camere fredde, per chi le aveva, comunque sempre molto …affollate, al punto che la collocazione di ciascuno risultava stretta e magari: “Giü al co e giü ai pè!” … intanto ci godevamo un po’ di calduccio.
In stalla anche “a fa muruse” ed …a recitare il Santo Rosario alla Vergine Maria. Gli incontri tra fidanzati si svolgevano nel tepore della stalla. Quando il giovanotto aveva libero ingresso alla stalla della sua morosa significava che era riconosciuto ufficialmente anche dalla famiglia di lei, quindi si può affermare che il recarsi nella stalla era praticamente ufficializzare il rapporto che magari nei precedenti mesi estivi era stato tenuto nascosto, quasi …furtivo, alle rispettive famiglie di appartenenza. I due ragazzi, ufficialmente fidanzati, sedevano vicini, ma potevano scambiarsi i loro sentimenti solo attraverso lo sguardo, infatti, l’occhio vigile degli adulti e soprattutto delle mamme o delle nonne era sempre su di loro.
A ballare non si andava e chi fosse andato, soprattutto al femminile era “…una poco di buono” e “…i la cancelàa dè l’Uratore”. Anche i fidanzatini recitavano insieme e coralmente il santo Rosario, seguito dalle Litanie della Madonna in Latino, recitate con devozione dalla prima all’ultima con tutte le invocazioni, accompagnate da una lunga sequenza di preghiera in ricordo dei propri cari, vivi o morti. Non mancava a causa del Latino la ripetizione di qualche strafalcione.
Vorrei vedere anche oggi, or che siamo istruiti, a pronunciare anche solo la seguente: Regina sine labe originalis concepta. Nelle stalle di quei tempi, non mancava mai l’immagine di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, (17 gennaio il “Ricordo”).
A cura di Achille Giovanni Piardi
Fonti: Lünare de Saviùr 2012. Comitato Calendario del Gruppo Resistere. Saviore dell’Adamello. www.voli.bs.it/grupporesistere – Per gentile concessione rilasciata ad A.P.