Jury Magliolo: “X Factor, Jamiro e il mio disco: sogni diventati realtà”

Jury Magliolo
Jury Magliolo

Tornato. E rinato. Una seconda vita artistica che non cancella la prima. Il percorso graduale di Jury sfociato in un concept-album abbagliante, battezzato ieri dal vernissage al teatro Sant’Afra. «Emerald lullabies» non è solo l’ultimo lavoro, appena pubblicato, di un cantautore che ha compiuto 31 anni il mese scorso e nella sua carriera ha già collezionato un podio a X Factor e concerti sullo stesso palco di Jamiroquai e Alicia Keys, Dave Matthews e Black Eyed Peas. È un disco singolare. Spiazzante. Stupendo. Sorprende per le traiettorie acustiche di canzoni eteree, evocando spazi di natura incontaminata che il video del singolo, «It’s so fine», immortala poeticamente. Richiama Buckley (la commovente «Writing songs about you»), cita i Beatles («To be alone», tributo a «Being for the benefit of mr. Kite»). Ninnananna agreste, carezza di un nonno al nipote, incanto di una melodia minimale che apre e chiude un cerchio luminoso sotto il cielo più limpido. Profondo familiare, voce del verbo Magliolo: le parole e la musica sono di Jury, mentre il fratello Kevin minore suona (di tutto), produce e arrangia insieme a lui, occupandosi in toto di registrazione e missaggio. Un disco fatto in casa, con amore e tanta sincerità. Un punto di ripartenza per chi ha scelto una via impervia da seguire col sorriso: fare pop intelligente in Italia. «Io seguo il mio istinto – spiega Jury -. Da tempo vivo a Gussago, in campagna. Ho dato sfogo alla mia vena più intima e il risultato è questo. In inglese, perché mi veniva così».

Gusto eclettico, atmosfera bucolica. E pensare che volevano renderla un teen idol…
Il talent show, certo. Mi ha lanciato e non lo rinnego. Adesso però io sono così. Mi riconosco in questo disco al cento per cento.

Come definirebbe la sua musica, oggi?
Alternative folk. Baroque pop. Adult oriented.

Mica banale, per chi proviene dal funk. Sfumature di una stessa sensibilità?
Spontaneità sempre. È la regola.

Che applica dal 1986. Nato in mezzo alla musica?
Ho iniziato a 6 anni, a strimpellare. Nato a Brescia, ho abitato a Bovezzo e a Nave, traslocando insieme agli strumenti con mamma Liana e papà Giuseppe, chitarrista e grande ascoltatore. Nel 1992 poi è arrivato Kevin, con cui adesso collaboro costantemente. Ci capiamo al volo. Ho cominciato a suonare l’anno in cui è nato, subito prima.

Cimentandosi con?
Chitarrina, tastierina… La predisposizione c’era. Enfant prodige no, non lo sono mai stato. Ma da subito ero l’unico della mia età che ascoltava e provava a suonare blues. Stevie Ray Vaughan, al passo coi tempi. Dopo sono andato alle origini.

Ha formato il primo trio a 13 anni: Dom Bibi Band. Poi il Nave Blues e l’incontro con Charlie Cinelli.
E devo dire che Cinelli mi ha dato una grossa mano. Mio padre è stato fra gli organizzatori di Nave Blues, andavo e conoscevo musicisti. Charlie vedeva in me una sorta di freschezza. Mi ha fatto aprire i suoi concerti.

Chitarra, ma anche pianoforte.
L’ho imparato da autodidatta, intorno ai 15 anni. Per la chitarra avevo studiato gli elementi fondamentali. Qualche lezione, qualche nozione, anche per la voce. È giusto che ci sia chi studia, io stesso collaboro con scuole di musica e nutro grande rispetto per chi approfondisce. Ma il mio approccio è diverso. Mi piacciono le cose istintive.

Il suo bagaglio?
Ho la fortuna di essere cresciuto in un periodo in cui se accendevi la radio qualcosa di buono passava. Da Modjo a Kylie Minogue. Poi ho conosciuto il brit ed è stato un trip… Bowie mi ha influenzato tanto. Ma le mie radici sono funk e disco-music. Earth Wind and Fire. Michael Jackson. E Jamiroquai, il mio modello.

Facile immaginare l’emozione di suonare in una serata sua.
Ho aperto anche i concerti di Joss Stone e John Legend, ma certo Jamiro… Indimenticabile Rock in Roma, con 8mila persone. Un palcone. L’ho incontrato, mi son presentato: tutto molto easy. Dopo aver aperto una serata del tuo idolo, perché lui è davvero il mio idolo, hai una visione della realtà diversa. Dovresti fare di più, mi hanno detto spesso. Ma se non è un sogno quello lì… Ringrazio il promoter Adolfo Galli, altro bresciano che ha creduto in me. Così come ringrazio Mauro Cassani, mio produttore già prima di X Factor.

«XFactor 2», nel 2009, al terzo posto. Un salto notevole, a 23 anni.
Ero giovane, ma preparato: avevo passato 2 anni facendo avanti e indietro da Milano. Chiunque voleva farmi firmare un contratto lungo, ma mi mancava il classico pezzo da successo immediato. Sembra un secolo fa: la tv contava ancora più di internet. Feci tutta la trafila dei provini di X Factor, non fui preso subito, ma ripescato poi.

Un po’ come i Soul System, che poi hanno vinto.
E un po’ di gratitudine la provo, io, per Simona Ventura. È stata davvero lei a volermi inserire nella trasmissione dopo qualche puntata. Diceva di non riuscire a dormire la notte, all’idea di avermi escluso. Ci fu una gara col televoto, fui scelto e arrivai fino in fondo. Mi chiamava diamante grezzo. Le piaceva la voce, si giocava tanto sugli sguardi fra noi ma era solo televisione, la verità è che aveva intravisto la mia personalità. Non voglio essere presuntuoso, ma coglieva il rapporto da carisma a carisma.

Le «arrivava», come avrebbe detto lei…
Altrimenti non avrei fatto X Factor.

Poi con la tv ha chiuso. Perché?
Mi hanno chiamato un po’ di volte, ma erano offerte poco concrete. Altre volte mi sarebbe piaciuto, ma non sono stato preso. Intanto ho continuato con la mia musica: «Mi fai spaccare il mondo», «Acrobati», «La pelle di Sophie»… L’onore di registrare a Minneapolis con la produzione di Tommy Barbarella, uno che lavorava con Prince.

Anni di crescita e di progetti nuovi, da The Matt Project e i Mag Brothers. Anche perché nel frattempo un altro Magliolo si è affacciato al mondo della musica.
Kevin ha iniziato nel 2011. Io ho sempre bisogno di suonare dal vivo e l’intesa è naturale.

Se non avesse fatto il musicista?
Ho studiato da grafico pubblicitario al Golgi. I professori per primi sapevano che avrei fatto musica. Non sono mai stato bocciato. Rimpiango di non aver preso una laurea. È fra i miei progetti futuri.

E adesso?
Dopo la presentazione-ascolto al Sant’Afra, e ringrazio Rolando Giambelli per avermi aiutato a trovare una location del genere, porterò in giro il disco. C’è già il video di «It’s so fine», ci saranno concerti. Suonerò. La mia vita è questa.

Quando non suona?
Amo camminare, andare in bici. Immergermi nella natura. Credo che dal mio ultimo disco si senta.
Gian Paolo Laffranchi

Fonte: Bresciaoggi

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