La mitìda di Caaleèr. La bachicoltura a Gussago. Dal bigàtt a la galèta.
Angelo Cartella, qualche mese addietro scrivendo ad Achille, così sì esprime: <<Achille, oggi mi sono capitate le foto dei bachi da seta che scattai anni fa; io ricordo bene, per noi contadini sino agli anni 50 era una delle prime entrate, come quella dovute alle ciliege. Perciò ci si impegnava prontamente, con la necessaria assidua attenzione.
I bachi da seta dalla maggior parte dei contadini veniva definita la prima vendemmia; negli anni ’40 del Novecento anche noi li abbiamo allevati, bene e con la massima cura. Le tante piante di gelso venivano tenute come fossero piante da giardino; a maggio i rami carichi di verdi foglie erano una gran pastura per i Caaleèr, ricordo bene, li mettevamo addirittura nell’anticamera dello zio Angelo sulle apposite tavole, una sopra l’altra con discreti interspazi per armeggiarvi. Queste tavole cariche di bachi da seta e della foglia de mur (gelso) così sormontate venivano comunemente chiamate tavole a “scalera”, o semplicemente “scalere”, avevano il fondo costituito da fusti di erbe di palude, sembravano quasi canne di bambù comunque legate tra di loro con spago fine affinché si realizzasse una superficie semirigida ma arieggiata; canne di piccole dimensioni in grossezza.
[Le stesse tavole sempre poste a “scalera” in altra stagione, da ottobre in poi, si usavamo per stendere, l’uva invernesca da consumare l’inverno od anche usare per fare la “sgranata” sul vino nuovo. …si diceva maturasse prima, così da essere i primi a smerciarlo verso gli osti del paese].
Tornando a la mitìda di Caaleèr , i bachi da piccoli si mettevano su fogli di carta e si dava loro da mangiare le foglie di gelso tritate come si fa con il radicchio da farne insalata per gli umani. Successivamente, mano a mano che crescevano sino a stendere loro i rami di gelso interi che, dopo che i bachi avevano mangiato tutte le foglie, vi rimanevano sotto come base per l’inizio della produzione dei bozzoli mettendo in aggiunta altri mazzetti di fuscelli di legna legati alle tavole in modo che il baco potesse avere più spazio per attaccarsi e chiudersi nel bozzolo; questa operazione veniva chiamata creare il bosco: èmbuscà i caaleèr. Poi i bozzoli venivano raccolti e consegnati velocemente alla filanda, prima che il baco diventato farfalla potesse uscire forando il bozzolo e cosi rovinandolo; la prima operazione della filanda era la scottatura dei bei bozzoli in modo da far morire la larva interna poi, a seguire, sgomitolare il filo di seta del bozzolo per produrre la stoffa serica.
Altra operazione in autunno era quella tesa alla cura delle stesse piante di gelso affinché si riproducessero rigogliose e, a parte quelle che cadevano con le prime brinate, le altre salendo, anche noi ragazzi, sulle piante a staccare le ultime rimaste che, raccolte, parte si davamo subito da mangiare alle mucche e parte venivano pressate in vasche o tubi di cemento coperte con uno strato di terra umida per evitare che entrasse aria che le avrebbe fatte “ribollire” e poi marcire, impedendo nel corso dell’inverno di poterle dare alle mucche quale foraggio. Durante la stagione invernale i rami dei gelsi venivano rarefatti e preparati per la successiva primavera, e i rami tagliati (smérse de mur) si usavano per legare i fasci di legna fatti di tralci di vite ed anche per legare (tirà) le stesse viti, una volta potate. I gelsi, non tagliati per i bachi da seta, producono il loro frutto che sono le more di colore bianco o nero. In periodi di magra, le more di gelso si raccoglievano e fatte ribollire (fermentare) come l’uva nelle botti si faceva un vinello oppure il tutto alla fine veniva distillato ricavandone della grappa ed, in ultimo, gli scarti servivano utilizzati come concime. I bachi da seta sono ancora prodotti in una qualche cascina della Bergamasca od in qualche museo contadino, a scopo didattico, come mi è capitato di vedere, qualche anno fa, nella zona di Malpaga; in quella occasione ho fotografato ed archiviate parecchie foto sulla bachicoltura. Sono le foto di ti ho parlato all’inizio. Conserviamo almeno questo poco>>.
Angelo Cartella, rammentando ad Achille ancora racconta: <<“Ricordati che i bachi i (caaler o caaleèr) si prendevano ad once (dialetto = ónse) ed è meglio spiegare a quale comprensibile quantità si riferiva l’oncia (pari a circa 30 grammi, più esattamente: 28,35 grammi) perché sulla stessa misura si valutava la resa in bozzoli e che era molto importante indovinare il periodo in cui prenderli per arrivare alla fine del ciclo di maturazione con la massima disponibilità di foglie e rami di gelso (mur) in dialetto. Ricorda anche che i gelsi non tagliati per i bachi, in estate producono il frutto che sono le more utilizzate anche per fare la grappa>>.
Testimonianza di Angelo Cartella, raccolta da Achille Giovanni Piardi
Quando il 30-31 maggio 1931 Gussago viene colpita dalla ricordata forte alluvione con ingenti disastri, molte famiglie stanno ancora accudendo ai “Caalér o Caaleèr e temono di perderne il raccolto ormai in bozzoli, anche se non ancora maturi. Questo, come in altre contrade, accade anche a Navezze dove ad accudire i bachi da seta in casa Piardi è Angela Camilla Ghedi, sposa di Achille Domenico della classe 1880. La stessa preoccupazione investe a Navezze almeno altre 30 famiglie; si pensi a quante possono essere nell’intera comunità gussaghese. Una perdita ingente di reddito che può gettare sul lastrico diverse famiglie, all’epoca ancora in assetto patriarcale! “Bello” l’episodio che si racconta tra i Piardi navezzesi: <<Achille torna a casa a cavallo dell’alluvione e scavalcando le macerie va cercando in casa la sua Angilina (Angela Camilla), non trovandola si preoccupa e una volta domandato alle figlie più giovani ancora in casa (Marietta di 7 anni e mezzo, Marianna di ani 12, Brigida di non ancora 18 e il figlio Andrea di anni 10), mentre come si sa gli uomini erano a sgomberare macerie, dove fosse la loro madre giungono tutti alla conclusione che non potesse trovarsi che “re ai caaleèr!”, ad accudire i bachi da seta. Corso poco più a nord della Contrada ed entrato nel cortile di destra degli Zanotti, chiamandola a gran voce: “Angilina!”; ella rispose: “Achile so che, söl scalèt, pustàt a la scaléra di caaleèr; pode miga gni zo, ghè tata de aiva! Raggiuntala, la trova su di una scala a pioli appoggiata ai sostegni “Scalera! che reggono le “taule”, tavole di canne (tipo bambù) che portano i bachi da seta in bozzolo, ormai “èmbuscacc”, legati alle ramaglie: quasi pronti per i fornelli della filanda, quelle di Piedeldosso (Sovernighe e Via Stretta) o di quella più grande in funzione a Cellatica nella quale trovano occupazione molte ragazze e donne gussaghesi. Achille Domenico preleva Angilina di peso entrando in acqua e se la porta a casa. Per questa volta sono salvi sia i “caaleèr” e la loro governante, e… la mamma dei sue figli, diversi ancora piccoli o, comunque, minori d’età.
Rinetta Faroni [“Gussago – I borghi ritrovati”. Comune di Gussago, dicembre 1996; pag. 19. Itinerario n. 2)] racconta: “(…). In via Stretta aleggia una parte dell’anima segreta del nostro paese. (…). Qualche traccia di devozioni scomparse una settecentesca Madonna delle sette spade sul muro di una casa; (…). Traffici serici connessi ad una filanda dei nobili Cavalli (oggi nn. 5-7) furono attivi nel secolo scorso (Ottocento), quando odore di bozzoli e vapori di fornelle invasero questa ed altre strade gussaghesi. Molte delle case su via Stretta conservano solide pietre di altrettanti consistenti casati; (…). (…). …entriamo in via Sovernighe e assaporiamo il respiro del tempo. …e sostiamo nei pressi della costruzione settentrionale di Villa Chinelli Colonna. (…). L’edificio settentrionale (della Villa) affacciato su Via Volpera era una filanda sicuramente fin dagli inizi del secolo scorso (n.d.r. Ottocento). Uno dei proprietari si era recato personalmente in Giappone e Cina, come facevano molti coraggiosi imprenditori bresciani nella seconda metà dell’Ottocento, a comprare i cartoni con i semi dei bachi. Durante un viaggio di ritorno, colpito da colera, morì sulla nave e fu sepolto in mare. Una delle tre sorelle Chinelli andò in sposa ad un barone Colonna di Altamura, ufficiale di cavalleria, e la villa divenne Chinelli Colonna. (…)”.[I Chinelli, di origini valtrumpline quanto i Richiedei erano tra loro parenti in quanto la madre del nobile Paolo Richiedei era una Chinelli].
Angelo Cartella, chiudendo ricorda: “…ogni famiglia comprava mezza oncia od, al massimo, una intera di seme”.
A cura di Achille Giovanni Piardi