Mestieri di una volta: èl Scarpulì… Töcc i àntâ la sò minèlâ

Forme scarpe

Tempo fa parlammo del Tìmbol e delle sue motivate stravaganze ed unimmo alla sua figura di ciabattino la bella poesia dedicatagli, anni fa, dalla maestra Teresa Angeli, gussaghese. Come lui, diversi altri a Gussago sono stati i calzolai. Ognuno vanta il proprio deschetto da calzolaio, ciabattino; “scarpulì”. Fu talmente importante il piccolo tavolino, pieno di attrezzi ed arnesi da lavoro, il modesto deschetto, tale da essere assurto a simbolo di coloro che a tutti i costi, magari senza motivo, vantano sopra ogni cosa la propria merce, le personali parole, il proprio discorrere, le proprie ragioni, le personali qualità: <<Ognü i àntâ la sò, dè minèlâ, di deschetto ciascun vanta il proprio>>. E quando tutto ciò fosse solo preteso, vale a dire senza fondato motivo, vi era il rischio che diventasse, non solo ironicamente: ‘na butìgâ dè saatì! Un nulla di fatto!

Tornando con i piedi per terra, …alle nostre scarpe, al tempo in cui nessuno, o assai pochi, potevano godere dell’uso di dette calzature; sì, di quando chi lavorava per costruire zoccoli, forse gli unici diffusi ed accessibili: con forma di legno per plantare o come suola e dove la stessa rivestita, in toto od in parte, da blanda pelle, la tomaia era detto süpilì, zoccolaio, poiché dedito alla realizzazione di zoccoli chiusi, sòcoi o parzialmente aperti sul tallone, süpèi. Così fu un po’ in tutti i nostri paesi di Franciacorta, delle Valli e dei monti, della pianura e della città, anche se con qualche diversità.

Nel 1949/50, quando nella nostra Gussago eravamo meno di ottomila anime (7737), i calzolai o ciabattini erano ben sei: Cortesi, Greotti, Marini, Marzi, Turati, Turotti.

Da diversi anni non entravo in un luogo col deschetto; mi capitò, invece, quest’anno 2014 a metà giugno in quel di Vipiteno e sebbene si debba applicare il detto latino “mutatis mutandis”, per tempi e luoghi diversi, e distinte tradizioni, mi sono tornati alla mente i tempi in cui, qui da noi, si andava dal ciabattino a fargli pressione, fretta, per aver di ritorno le scarpe, magari, …anche senza magari, l’unico paio di scarpe, riparate solo in suola, od anche in tomaia, con forse anche una mascherina applicatavi in loco o la sostituzione del tacco, per poter andare a scuola, a Messa, al matrimonio di qualche parente dove necessitavano le scarpe nere, mentre le nostre, uniche, erano bordeaux. Dunque il calzolaio “èl ghera a pò dè ‘npatinàle co la patinâ negrâ” e “ chè le tignìès ‘l culùr”, almeno per la circostanza.

La butigâ de scarpulì

Luoghi di lavoro e figure che scompaiono. Oramai ne sono rimasti assai pochi. Vedete un po’! Proprio a metà agosto 2014 se ne è andato, giovane di 58 anni, l’ultimo calzolaio della Val Brembana, Roberto detto “Pigla”, era di San Giovanni Bianco ed aveva imparato l’arte dal padre e dal nonno, dagli zii. In genere era proprio così: di padre in figlio. Un po’ come da noi a Gussago; anche i nostri furon figli d’arte! La Valle del Brembo non è qui menzionata a capocchia: moltissime nostre famiglie, gussaghesi e bresciane sono originarie delle valli bergamasche, sin dal 1388; addirittura abitarono in una delle Quadre della città capoluogo con motivo, professione accertata soggetta a censo, e dignità. Così i Venturelli, gli Ogna, i Gozio, anzi Gosio (di Goss, Gossio, Goscio), i Morzenti o Mordenti, i Milesi, i Gipponi (già Giupponi proprio nelle contrade della Val Brembana tra cui proprio San Giovanni Bianco), San Martino Bergamasco, San Gallo B. e altri paesi montani o vallivi bergamaschi. Sono della Bergamasca anche i: Fenaroli, Andreoli, Scalvini, Serina, Vertua, Redona, Rigosa, Ardesi, Gualdi, Ranzanici, Guerrini o Guerrini, Maffeis, Ceresoli, Vitali ed anche i Tassi originari di Camerata Cornello in Val Brembana. Come nella stragrande maggioranza dei Comuni, neppure a Gussago vi erano tanti negozi di scarpe; alla fine degli anni Quaranta del secolo XX uno solo, quello condotto da Giulia Goffelli. Quindi funzionavano assai bene le sei botteghe, come abbiamo visto, di calzolaio. Di solito una piccola stanza a piano terra con l’ingresso sulla strada.

Il calzolaio, almeno inizialmente, non era solo un rattoppatore di scarpe, ma anche un produttore di calzature, soprattutto scarpe da lavoro, scarponcelli o scarponi, gli scarponcini per i bambini e le ciabatte “söbre” per le donne, aperte sul tallone e chiuse sul davanti con pelle o vernice ed erano usate per la festa e per anche per andare in chiesa e, molti anni fa, anche per la sposa, il dì del matrimonio. Il calzolaio aveva un bel da fare anche per le riparazioni, come detto, soprattutto degli scarponcini dei bambini che giocando tanto all’aperto rovinavano in continuazione la parte anteriore della calzatura, necessitando l’intervento del “scarpulì” il quale sulla parte bucata cuciva un pezzo di pelle (la mascherina). Comunque per ogni giorno ordinario, ormai lontano, si indossavano degli zoccoli chiusi (sòcoi). Questo tipo di calzatura, assai comune, era alla portata di moltissimi, addirittura ogni papà o nonno era capace di costruirla facendo prendere forma ad un pezzo di legno ed inchiodandovi attorno, o solo sul davanti se süpèi deèrcc, del cuoio o della pelle non pregiata apponendovi in tondo “de le brochè, fade co la capèla tonda è larga per fa chè le tignìès be la tomérâ”.

Le famiglie avevano in casa la classica forma delle scarpe (modello di legno a simulazione della conformazione del piede). Entrando nella bottega del calzolaio la prima cosa che colpiva era il forte odore di colle e di cuoio: i materiali principali utilizzati dal calzolaio. In essa colpivano le forme di legno che il calzolaio teneva sullo scaffale posto dietro di lui, mentre al centro della stanza faceva “troneggiare” il deschetto: un tavolo basso sul quale posava tutti gli arnesi ed i materiali di normale uso e consumo impiegati nel suo lavoro; aveva il piano suddiviso in vari scomparti, per contenere separatamente i chiodi, le semenze (particolare tipologia di chiodi, quali le cosiddette “puntine dè sèmènsa”), le bullette, i chiodi di legno, la cera d’api, il grasso per ungere la lesina, la pece; alcuni attrezzi venivano posati al centro del piccolo tavolo, ed altri appesi ad appositi ganci sul bordo “dè la minèlâ”. Dietro il deschetto vi era lo sgabello in legno, nulla di particolare, ma una caratteristica speciale l’aveva: doveva avere un’altezza adeguata a far sì che il calzolaio assumesse sempre una posizione orizzontale alle ginocchia sulle quali il medesimo, quando lavorava, necessitava appoggiare l’incudine metallica a forma di piede rovesciato, “èl pè dè fèr” (pèdèfèr).  Èl scarpulì portava, sopra i normali abiti di ogni giorno, un apposito grembiule in tela resistente con un rinforzo di cuoio sul davanti che proteggeva gli indumenti dai tagli e dai graffi, alcuni arnesi erano, infatti, molto appuntiti e taglienti, ben affilati. La passione e la pazienza con cui maneggiava le scarpe era semplicemente sorprendente; poi, con una veloce applicazione di cera rendeva le nostre scarpe lucide ed impermeabili. Vi erano, scarpe, zoccoli, ciabatte, scarponi e scarponcelli (scarpe, sòcoi o süpèi, söbre o sübrète, scarpù, scarpunsì e scarpunsèi, saàte e saàtì) su quel scaffale, da riparare o già in attesa di essere ritirati, ma nulla fuori posto od in disordine! Vi erano anche scarpe, per chi poteva, comprate strette, …affusolate, dalle ragazze (pò a di òm), per dopo dover correre dal calzolaio affinché le mettesse …in forma onde ottenere l’allargamento di almeno mezza misura: “èn 38 al pòst dè, apénâ, èn 37 è mèz”. A Gussago come nel bresciano attorno alla vita del “Scarpulì” nacquero alcuni modi di dire, a lode o a biasimo del bravo o meno calzolaio, quali: “Na scarpâ e ‘n süpèl”, “L’è na scarpâ e ‘n süpèl”; modi di dire che hanno poi assunto nel linguaggio gergale o del Vulgo chiara definizione comportamentale negativa o, per lo meno, significativa di un modo poco acconcio di presentarsi o vestirsi di una persona (…essere vestiti un po’ bene e un po’ male), oppure nella maniera di realizzare le cose in modo non sufficientemente “compìto”, raffazzonato, senza cura, senza coordinamento, anche dei soli colori non … abbinabili o mal abbinati.

A Navezze, forse anche in Centro e nelle altre Contrade gussaghesi, era corrente, ora credo non più, un detto, un modo di dire, usato in caso di inconcludente situazione a carattere familiare, di lavoro o di studio, nella quale, cioè, non si veniva a capo di un risultato: “Chè fom detèr che? Na butigâ dè saatì?”. Allora sì che non sarebbe proprio il caso di sostenere l’affermazione riportata nel titolo di apertura, ci mancherebbero le motivazioni fondanti il vanto gussaghese. Bensì, dovremmo affermare: “Lè prope mia (miga) èl caso dè antà la sò minèla”, ma noi non lo vogliamo fare, non ne sussistono i motivi negativi, dal momento che invece i nostri calzolai “Scarpulì”, per come i agìâ èn dèl sò laurà, i gherâ töt èl dirito e l’ orgöle dè pudì antà la sò minèla!

A cura di Achille Giovanni Piardi

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