Natale Vezzoli, il pugile gussaghese che fu campione europeo superpiuma

Natale Vezzoli
Natale Vezzoli

«Io non ho mai avuto passione per lo sport. Io ho fatto il pugile per essere qualcuno». Tutto qui, il romanzo della vita di Natale Vezzoli, glorioso pugile bresciano, 180 incontri tra dilettantismo e professionismo, campione europeo super piuma con 9 difese del titolo, un sassolino nella scarpa che si chiama Hernandez e «mai un giorno di lavoro perso», come specifica mostrando le mani noccute, da carpentiere. La sua storia sul ring comincia nel 1966 a Brescia, via Zara, palestra Mariani. Un ragazzino tutto nervo, di soli 43 chili, accompagnato dall’amico dilettante Luigino Pe’, fa capolino e chiede di poter imparare. «Non ho paura di nessuno» è il suo biglietto da visita. Si sente dire: «43 chili? Cosa sei, un morto che cammina?». Di lì a poco, «Bistecca» fratello di Mariani, suo primo istruttore ammetterà: «Il ragazzino ha una sberla niente male».

Milano, febbraio 1967, primo incontro. Categoria pesi mosca, campionato lombardo. Il match lo oppone a Vailati, per entrambi prima esperienza sul ring. L’arbitro li chiama a sé, enuncia le regole, poi volta le spalle per dare l’ok ai giudici. E i due iniziano a darsele prima del gong. «Combattevamo al Principe. Un intero palazzetto che rideva», ricorda Vezzoli. Da lì una strada lunga, fatta di match vinti moltissimi e di match persi pochi, «solo una volta sono andato al tappeto, con Hernandez, toccando terra coi guantoni». È questo l’incontro che non gli è mai andato giù e che ancora lo fa avvampare. I pugili, spesso, hanno facce da bambini. Vezzoli non fa eccezione, con quel naso rotto al centro di un muso squadrato da toro, l’osso del setto come un ponte crollato. Gli occhi che scintillano, la voce rimbombante, racconta: «Quella mattina, a Valladolid, vado a correre. Poi salgo sulla bilancia dell’albergo. Sono sotto di due etti. Non mi fido, entro in una farmacia e ripeto l’operazione: stesso verdetto. Ma al momento della pesata ufficiale risulta che sono sopra. Capisco che qualcosa non va quando non vogliono darmi l’ora prevista dal regolamento per pesarmi una seconda volta. Al che mi rivesto e faccio la corda furiosamente, pensando: ve la faccio pagare, maledetti peones! Mezz’ora e mi peso di nuovo: sotto di due etti». Rievocando, balza in piedi negli occhi i riflettori di quel 10 marzo 1979. «Mi aspettavo che Hernandez fosse un pugile tecnico, invece era un picchiatore. Nel primo round vado giù coi guantoni. Nel secondo lo studio. Nel terzo lo schianto al tappeto». Ed ecco che, nel dire terzo, scatta in guardia. Si drizza tra la pendola e il tavolo del salotto e colpisce l’aria, schivando ombre invisibili del passato. «L’ho colpito con precisione, così, vedi? Lui è caduto giù con una piroetta. Sono andato all’angolo, ma quando mi sono voltato l’arbitro non aveva ancora cominciato a contare. Se l’è presa comoda, almeno 30 secondi. E Hernandez si è rialzato. Poi nel quarto round mi sono ferito all’arcata e hanno interrotto il match: perso ai punti». Ma è di due anni prima, 1977, il ricordo più amaro. Perché Vezzoli, nonostante fosse terzo nella graduatoria Wbc, non ha mai avuto l’opportunità mondiale che gli avrebbe cambiato la vita. «Quell’anno dovevo incontrare Escalera, poi non se n’è fatto più niente. Così, nel 1980, stanco, mi sono ritirato». Tirando le somme, questo carpentiere che dopo la pesata divorava gelato con whisky e consigliava a Nino Benvenuti di immergere il paradenti nel vino, dice: «Sono stato un campione, e non perché ho vinto tanto. Ma perché, anche da morto, stavo in piedi fino alla fine». Seguendo con gli occhi traiettorie che stanno svanendo, fa: «La vita di ogni uomo è un’Apocalisse». Poi, serio: «Sa cosa ho detto al mio maestro quando ho smesso? Che se fossero venuti per me dall’America, avrebbe dovuto chiedere: perché non l’avete cercato prima? Adesso è troppo tardi. Adesso lui non c’è più». Così ha chiuso la porta una volta per tutte, Natale Vezzoli. Chissà se l’hanno cercato, poi, quel campione che stava su, anche da morto, per 15 round. Chissà se qualcuno ha mai chiesto di quel piccoletto che le suonava a tutti e boxava «a modo suo». Chissà se qualcuno racconterà la storia di un vincitore senza vittoria.
Archetti Marco

Fonte: corriere.it

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