Pietro Zucchetti racconta la cerimonia di chiusura dell’Olimpiade di Rio 2016

Pietro Zucchetti
Pietro Zucchetti

Dell’Olimpiade di Rio conserverò a lungo due immagini, più che il mio risultato. I mille colori che hanno accompagnato i Giochi dal primo all’ultimo giorno e la premiazione della maratona nella cerimonia di chiusura, che ha visto salire sul gradino più alto del podio il kenyota Eliud Kipchoge: il vincitore d’una gara così massacrante per me è l’emblema dei Giochi. In un certo senso riannoda lo sport attuale, nel senso più puro del termine, con la leggenda di Fidippide che, 500 anni avanti Cristo, avrebbe corso ininterrottamente da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria e appena giunto sarebbe morto per lo sforzo. E anche se ora il programma dei Giochi si è dilatato a dismisura, la maratona continua a rappresentare lo spirito essenziale, che obbliga l’atleta a misurarsi con la sofferenza.

Nella cerimonia di chiusura il «nostro» portabandiera era Daniele Lupo, argento nel beach volley con Paolo Nicolai. Una scelta significativa, quella del presidente del Coni Giovanni Malagò: un anno e mezzo fa a Daniele hanno diagnosticato un tumore; sottoposto a intervento chirurgico, è guarito, e ha ripreso a gareggiare, conquistando una medaglia che, a ben guardare, rappresenta un inno alla vita, il riemergere dal dolore per salire sul podio. Al Maracanà la nostra delegazione era composta da un centinaio di persone. Un discreto numero, considerando che negli ultimi giorni molti tornano a casa: chi per festeggiare con i familiari e gli amici un buon risultato, chi per assorbire una delusione.

Io e Ruggero Tita, lo skipper della mia imbarcazione, abbiamo preferito rimanere a Rio, e rinviare il rientro, per non perderci nemmeno un attimo delle ore conclusive. Così nel pomeriggio siamo andati a vedere la finale di volley tra Italia e Brasile: una bolgia infernale. Mi sono chiesto come abbiano fatto gli azzurri a resistere alla pari, lottando punto su punto e dimostrando di essere combattivi, quandoa ogni battuta venivano subissati da fischi. Non era facile mantenere la concentrazione in un ambiente così ribollente. Ma almomento della premiazione il pubblico ha tributato all’Italia applausi tanto fragorosi che ho sentito i brividi. Gente calda e appassionata, orgogliosa di quello che fa, e che è in grado di dare. Numerose le difficoltà superate, con impegno e dedizione.

Sul campo di regata di Marina da Gloria, ad esempio, una rampa di accesso all’acqua ha ceduto per le forti raffiche di vento e le onde violente. Ebbene, in tre giorni gli organizzatori l’hanno rimessa a posto. E che dire dei volontari? L’altra sera siamo arrivati in ritardo allo stadio Maracanà, e abbiamo rischiato di non entrare. Ma loro si sono fatti in quattro per aiutarci a superare gli sbarramenti, e a raggiungere la nostra delegazione. Rispetto a Londra 2012 ci sono state un po’ di pecche organizzative, però ho sempre visto la massima volontà di risolvere i problemi. In un certo senso ho colto una contraddizione tra la disponibilità della gente comune, pronta ad aiutare con estrema semplicità, sempre col sorriso, e il gigantismo dei Giochi, lo sport contenuto in un grande carrozzone, un business globale. Dando l’arrivederci a Tokyo 2020, il presidente del Cio Thomas Bach l’ha comunque definita un’edizione «meravigliosa». Alla fine il Brasile ne è uscito al meglio, esaltando la propria creatività.

Lo spettacolo conclusivo, gioioso e disordinato, mi ha emozionato dall’inizio alla fine: un tripudio di colori e di geometrie che, da architetto, mi ha conquistato. In una serata di pioggia e di furiose raffiche di vento, Rio ha salutato il mondo con le sue celebri ballerine delle scuole di samba, e i percussionisti assordanti. Musica e colori hanno fatto dimenticare il maltempo. Non sono mancati omaggi e riferimenti ai personaggi della storia brasiliana e alla bellezze del paese: il mare, il Pan di Zucchero e il Corcovado. E’ stato bello seguire sugli schermi il film dei Giochi, il riassunto di imprese, record ed emozioni che hanno segnato l’avventura a cinque cerchi. Le medaglie vinte all’ultimo secondo. Le lacrime versate sul podio. Senza dimenticare il video scherzoso con i campioni che improvvisavano balletti. Mi ha divertito molto vedere sbucar fuori da un grande cilindro posto al centro dello stadio il premier giapponese Shinzo Abe vestito da Super Mario, l’eroe dei videogiochi. E mi sono chiesto se da noi sarebbe stata possibile tanta ironia. Chissà, forse nel 2024 lo sapremo. Di sicuro lascio Rio con una certezza: l’Olimpiade ha un fascino unico perchè unisce uomini, donne, colori ed emozioni. Felice di averla vissuta anche senza un risultato brillante. Del resto, come diceva il principe de Coubertin, all’Olimpiade l’importante è partecipare. Anche solo per vedere la premiazione della maratona e i mille colori di Rio.
Pietro Zucchetti

Fonte: Bresciaoggi

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