Set ‘l bubà dè chi, set ‘l bubà dè chi, te?

La nonna racconta, di Angelo Cartella
La nonna racconta, fotografia di Angelo Cartella

Visto il successo ottenuto dal precedente lavoretto dal titolo “Quàcc agn ghet nòm?”, pubblicato verso la fine di marzo 2021, continuiamo con una nuova domanda, una di quelle da voi lettori medesimi definita “sibillina”. “Set ‘l bubà dè chi, set ‘l bubà dè chi, te?”.

Quando mi recavo a casa di zio Giuseppe (Navezze, 1906), l’ultimo cortile in fondo a Vicolo dell’Alfiere in quel di Navezze, erano gli anni 1952-1956, là dove nei secoli passati funzionava sul corso della seriola “Serioletta” uno dei cinque più importanti mulini navezzesi, da solo od in compagnia di altri bambini-ragazzi, lo zio poneva indistintamente a tutti la domanda: “Set ‘l bubà dè chi, set ‘l bubà dè chi, te?”. Una interrogazione atta a far crescere il bambino in “scienza e coscienza” e più che misurargli la capacità di intendere era, soprattutto, uno sprone a cimentarsi con gli astanti e con le persone adulte, quella stessa cosa che poi sperimentai/sperimentammo da giovanotti durante il servizio militare definita “sbranina”: capacità di presentarsi, autogestirsi ed agire operosamente e con sollecitudine. Certamente, piccoli com’eravamo, rimanevamo un po’ in difficoltà di fronte a questa domanda, come lo era o lo era stato per quell’altra (di cui parlammo ed abbiamo accennato all’inizio) in cui dovevamo comprendere che la risposta stava nel dover declinare nome e anni d’età. Qui, invece, necessitava rispondere di chi si fosse figlio! Posta, però, in detto modo comportava notevole impiccio.

Tutti volevamo scendere quei parecchi scalini dell’imbocco ai Venturelli per recarci dentro il tunnel del corso della “Serioletta”, quasi a giungere sul pelo libero dell’acqua, per udire il frastuono o rimbombo delle acque in un cunicolo tanto lungo, infatti dopo quel punto l’acqua tornava a scorrere a cielo aperto dentro di un vigneto, quello, appunto, dei Venturelli dopo essere transitata accanto, anzi quasi sotto la loro casa dotata di un bel ed ampio porticato lungo almeno una ventina di metri, fruizione che a me, a noi, mancava.

La Seriola, nascente al “Gurt” (Gordo) – al Ciurlì di Via Carrebbio, ai piedi della collina che regge il piano di San Martino – detta Serioletta, attraversato il citato vigneto continuava poi il suo corso sino a giungere in località Fossa dove, in via Follo, parte di essa formava il lavatoio, molto più basso del piano stradale, per le famiglie di quel posto. Qui, le donne intente “a laà o a rezentà”, a lavare o sciacquare i panni, parevano molto piccole sia perché curve sull’acqua corrente sia perché collocate, come detto, almeno cinquanta centimetri più in basso della strada. Così chine ma ben salde sui piedi muovevano quasi soltanto la parte alta del busto quando sciacquavano, completamente ricurve invece quando intente a lavare e strofinare gli abiti sulla superficie liscia del lavatoio, solo sapone e spazzola di fine saggina “èmbrösiå”, anche luogo d’incontro per donne, posto proprio innanzi il cortile della signora Marcella dei Faita, quello delle famiglie Dolzanelli – Squassina – Mangiavini e davanti all’angusto passaggio per quello dei Peroni “Nas”. Se un bambino si avvicinava a curiosare, pur ignaro di essersi posizionato a …posteriori, la domanda rituale scoccava: set ‘l bubà dè chi, te? Anzi, qui raddoppiava con la seconda interrogazione subito seguita da un imperativo, del tipo: chè fet le, nano, ve vià dè le dè re! Lì, alla strettoia, comunque si radunavano – soprattutto di lunedì – le lavandaie della popolosa plaga della Fossa, mentre quelle della località Fontana si ritrovavano al Laandér/Laandeéèr di Vicolo Alfiere (attiguo alla recinzione del vigneto di Paolo Peroni dei detti Nas) mentre quelle delle famiglie dimoranti ancora più a nord della contrada Navezze si riunivano al lavatoio di Vicolo Mincio, per ‘na ‘n dè la Canàl. Luogo quest’ultimo in cui chi scrive, sino al marzo 1958, accompagnava/accompagnò sua madre reggendole da un lato – sia all’andata quanto al ritorno – la vaschetta metallica colma di panni da portare poi a stendere sui fili del grande cortile dei Gozio, già dei Piardi. Chiaramente l’accompagnatore aveva ascoltato ognuna delle chiacchiere delle donne al lavatoio ed osservato anche lo spostarsi a monte od a valle di ogni massaia, a seconda avesse panni bianchi o di colore da sciacquare onde evitare che i colorati tingessero o macchiassero la biancheria, ed anche l’avvicendarsi delle medesime al fosso lavatoio.

La domanda di cui al titolo tornava ricorrente o di rito quando ci recavamo con anche i cugini, magari in compagnia di altri coetanei, ai campi condotti dallo zio, sia quello che aveva in affittanza dall’Opera Pia Richiedei sito nella zona tra Pomaro e Dordàro al piano, ma con anche una propaggine di filari di viti lungo la cosiddetta strada detta del Malandrino, come pure in quell’altro appezzamento a prato, vigneto e piante di ciliegio ubicato, un po’ più ad ovest, tra il cimitero e la cascina Dordàro, sempre sulle prime propaggini del Barbisone sud ovest. Nel primo dei due appezzamenti vi era una grande attrazione, per nostri 4 – 7 anni: una grossa pianta che produceva sia ciliegie quanto amarene; la spiegazione ci venne data subito, ma come comprenderla? Nella parte nord di questo appezzamento, molto più tardi, mi indicarono crescere spontanee delle orchidee da campo portandomi ad osservarle. Sono orchidee rustiche-silvestri, piante spontanee: i loro fiori sono diversi e molto più piccoli di quelli delle orchidee in esposizione dai fiorai; tuttavia anche se talvolta sono minuscoli hanno il pregio di essere aggraziatissimi per le forme strane, per i colori vivaci, e perchè molto profumati.

Lo zio Giuseppe, sempre accompagnato dalla sposa zia Maria Venturelli, non mancava di “addestrare” od avviare al medesimo rito anche i restanti bambini, parenti o accompagnatori momentanei. Anzi ci teneva tanto che anche i restanti giovani ospiti apprendessero la ritualità e orgogliosamente conoscessero che i suoi nipoti già si erano destati e fossero pronti ad interloquire con lui, con le persone adulte; come si fossero – come poi apprendemmo da giovanotti in divisa militare di esserci – “sbranàcc föra”; sempre si trattò di far uso di operativa …sbranina. Consci di sapere di dover crescere in età e operosità attraverso l’auto disciplina ben guidata. A qualcheduno più grandicello che stava nel campo con noi e che, invece, dimostrava di “sapere”, un po’ troppo, si beccava l’ammonimento: adå, te, brighèlå chè ta tire sö ‘na gambå dè bocå! Qui entriamo in un altro stadio di …campo educativo.

A cura di Achille Giovanni Piardi

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